L'intervista

«Sarò sempre un pilota, anche se ero troppo alto per la Formula Uno»

Dopo anni e anni di onorata carriera Joël Camathias ha detto basta: «La velocità e l'adrenalina mi mancheranno, ma sono sereno»
Marcello Pelizzari
27.10.2022 09:30

«Sarò per sempre un pilota. Anche quando dormo. Sì, sarò un pilota che dorme». Joël Camathias ha detto basta. A 41 anni suonati, nonostante un fisico e una verve invidiabili, il ticinese ha – sue parole – messo un punto su una carriera lunga, lunghissima. E ricca di successi e soddisfazioni. Lo abbiamo intervistato.

Joël, perché calare il sipario proprio ora, dopo tanti anni di accelerate?
«Tanti anni, sì. Quasi trenta: nel 2024 sarebbero stati trenta esatti. Ho deciso di mettere un punto dopo un anno sabbatico non voluto, nel senso che avevo tentato di trovare un ingaggio per la stagione 2022. Però, ecco, per tutto questo tempo sono rimasto sereno. Pensavo che l’astinenza dalle corse sarebbe stata diversa, invece l’ho avvertita in maniera blanda. Le attività lavorative e la famiglia, d’altronde, piano piano mi hanno portato via dal discorso racing. A me, in fondo, piace fare le cose bene. E per fare le cose bene sarebbero serviti tempo e dedizione. Diciamo, allora, che mi ero stufato di non poter correre come avrei voluto».

È un punto definitivo?
«Nella vita non escludo nulla. In questo momento, come detto, voglio mettere un punto. Anche perché la decisione è maturata spontaneamente. In questo periodo, negli anni precedenti, mi arrabattavo per trovare un sedile per la stagione successiva. Un periodo fatto di viaggi, incontri, chiamate, e-mail. Se, ora, non mi sono mosso, beh, mi dico che allora è inutile portare avanti il discorso. La realtà è che non ho più bisogno del motor sport, un’attività che mi ha dato tanto, ha richiesto tanti sacrifici e che mi ha fatto crescere come persona e come uomo».

Che pilota è stato Joël Camathias? 
«Mi sono sempre reputato un pilota normale. Non il peggiore, non il migliore. Forse, mi sono un po’ sottovalutato in alcuni momenti. In generale, tendevo e tendo – nonostante il mio ego, immenso – a essere modesto. E questo non mi ha sempre favorito. Sono convinto che, nelle giuste condizioni, parlo di team, ambiente, mezzo, avrei potuto dare tanto. È successo, in determinate circostanze. Quando, invece, alcune cose non filavano come volevo, andavo in tilt. Ci sono piloti che riescono sempre a tirar fuori la prestazione, martellando giro dopo giro. A me serviva la perfezione. Tornando alla decisione, non andrei a correre per divertirmi ora come ora. Voglio avere un obiettivo in tutte le cose che faccio. Anche a padel, un hobby nato negli ultimi tempi, non avete idea della rabbia di fronte a una sconfitta. Preferisco stare fermo: ho 41 anni e sono contento della mia carriera».

Come può un (ex) pilota trovare la velocità e l'adrenalina nella vita di tutti i giorni?
«La velocità e l’adrenalina, è vero, sono componenti che mancheranno. E sarà difficile ritrovare emozioni simili. La gara, i duelli e via discorrendo. Sono e rimarrò ancora legato allo sport, in particolare la corsa. Certo, parliamo di emozioni differenti rispetto alle macchine. Rivenendo alle corse, nella mia mente è vivissima la memoria del campionato International GT Open vinto nel 2009 assieme a Marcel Fässler, poi diventato una star di Le Mans. Quando, sul finale di stagione, vincemmo una gara, chiamai papà. Per non so quanti minuti, complice l’emozione, non riuscimmo a parlarci. Piangevamo. Sono momenti appunto vivissimi, lucidi, assoluti. E così tante altre volte. Ho vinto molto, ho finito vincendo. Sono, ripeto, orgoglioso di quanto fatto. A spingermi, sempre, è stata questa voglia di ottenere qualcosa. A volte sono sceso a compromessi, ma se mi guardo indietro posso dire di essere sereno».

Trovare un sedile nelle ruote coperte, ultimamente, è diventato difficilissimo. Quanto ha inciso questo aspetto nella decisione?
«Ha inciso, è vero. Proprio perché è diventato sempre più difficile trovare un posto. Noi, oggi, come piloti siamo divisi dalla FIA, la Federazione dell’automobile, in quattro categorie: bronze, silver, gold, platinum, a seconda del grado di professionismo e dell’appartenenza a una casa automobilistica. C’è una miriade di piloti giovanissimi e fortissimi che rientra nella categoria silver, la mia, quantomeno quella che mi appartiene. Parliamo di ragazzi che, fino al giorno prima, sono seduti su un simulatore. Poi salgono su una GT e vanno più forte di te. Puoi dire, allora, al team di avere tutta l’esperienza di questo mondo, di aver corso due volte la 24Ore di Le Mans. Ma la realtà è che non puoi competere davvero contro questi profili, anche perché molti si presentano con una dote importante. D’altro canto, ultimamente quando salivo in macchina non avevo nemmeno più la testa per concentrarmi al 100% su quello che dovevo fare. Faccio un esempio. A Monza, nel 2021, nel mio ultimo anno di attività, durante le prove libere poco prima di salire in macchina ho commesso l’errore di guardare il telefono e leggere un’e-mail di lavoro. Questa piccola cosa, per quanto banale, mi ha fatto guidare in maniera non lucida. Tant’è che ho finito per demolire l’auto. A quei livelli, banalmente, la concentrazione dev’essere totale. Nel calcio, nell’hockey, in altri sport di squadra, c’è un momento in cui puoi rifiatare o estraniarti. E una discesa di sci, per quanto complicatissima, dura qualche minuto. Nel mio caso, un evento come Le Mans fra tutto dura due settimane. E tu, sempre, devi essere al 110%. Giro dopo giro, contro te stesso e contro il tempo. È qualcosa di bellissimo, di appassionante. Sono sicuro, per dire, che nel mio sangue scorre benzina. Però è un impegno importante, non puoi pensare di passeggiare».

Ripensando al Camathias ragazzo, nei primi anni Duemila, quanto è stato vicino il sogno di correre in Formula Uno? 
«Ci sono andato vicino. Ma un vicino con la borsa, nel senso che ero stato in Minardi, avevo un contratto come test driver con la scuderia, ero stato anche in azienda a Faenza, dove oggi c’è l’AlphaTauri e avevo parlato con Giancarlo Minardi, oggi ancora attivo nella Federazione italiana. Mi disse: guarda Joël, tu sei di sicuro un buon pilota, sei anche un bel ragazzo, ma la tua altezza (193 cm, ndr) non ti permette di fare nulla in Formula Uno. Quelle parole, di fatto, mi fecero pensare. In parte capii che quel capitolo, per quanto bello, prima o poi andava chiuso».

Avevo la testa dura, all'epoca puntai i piedi e buttai via qualche anno nelle monoposto. Pur sapendo che non mi avrebbero portato chissà dove

Perché, allora, insistere con le monoposto? Citiamo, tornando ai primi anni Duemila, esperienze in Formula 3000 e Champ Car. 
«Il mio povero papà, con cui c’è sempre un dialogo nonostante sia venuto a mancare anni fa, all’epoca mi disse pure lui di lasciar perdere. Non è il tuo ambiente, passa alle ruote coperte, mi ripeteva di continuo. Io però avevo la testa dura, puntai i piedi e buttai via qualche anno nelle monoposto. Pur sapendo che non mi avrebbero portato chissà dove. Avrei potuto iniziare prima con le ruote coperte, ottenendo magari ingaggi diversi».

Ma Camathias ha imparato prima a guidare o a camminare? 
«No, a camminare. Sono arrivato tardi ai motori, era un’altra epoca. La stessa Formula Uno aveva piloti più anziani rispetto a oggi. Cominciai a 13 anni, nel 1994, insistendo con papà. Nonostante fosse stato pilota, devo dire che non mi ha mai indirizzato. Fu un amico a spingermi, invitandomi un mercoledì pomeriggio ai go-kart a Magadino. Cito un aneddoto: papà, per il mio primo go-kart, che ho ristrutturato e appenderò presto su una parete di casa, ma non ditelo ancora alla mia compagna perché non lo sa, prelevò i soldi dal mio conto risparmio per sensibilizzarmi. Disse: Joël vuoi correre? Questo è quello che ti aspetta. Poi, per carità, mio padre è sempre stato presente e mi ha aiutato lungo tutta la mia carriera. Sostenendomi. Sempre».

 Qualche rivale famoso incontrato lungo il percorso?
«Mi sono confrontato, in carriera, a tutti i livelli, con grandi piloti e in contesti estremamente competitivi. Faccio un nome su tutti: Fernando Alonso, con cui ho corso nei kart e nelle formule minori. Era più basso di me, ma era anche estremamente veloce e talentuoso. Sapevamo tutti che la strada, per lui, era spianata. Sono sicuro che, nel giusto contesto, potrei ancora dare qualcosa. Un po’ come lui. Ma devono collimare tanti, troppi fattori oggi come oggi. Una volta ancora: meglio farmi da parte».

In età adulta, crescendo diciamo, vengono meno l’incoscienza e questa capacità di mantenere la testa libera. Oggi ho una compagna e ho dei figli. E se facessi un incidente?

Fare il pilota non è un mestiere per tutti: bisogna gestire anche la paura di morire, giusto?
«Non ci ho mai pensato, se non ultimamente. Quando sono diventato papà. Penso sia la natura umana. In età adulta, crescendo diciamo, vengono meno l’incoscienza e questa capacità di mantenere la testa libera. Oggi ho una compagna e ho dei figli. E se facessi un incidente? Anche questo è un pensiero che ha contribuito alla mia decisione».

Camathias ha parlato di essere cresciuto, come uomo, lungo tutta la carriera. In che senso?
«Sono cresciuto grazie ai momenti difficili. Penso al 2003, quando mi trovai da solo, in America, con un contratto nella Champ Car interrotto bruscamente. Senza le possibilità offerte oggi dalla tecnologia per sentire i miei familiari in Ticino. Fu un'esperienza brutale, come brutali sono gli statunitensi nel gestire lo sport. Ricordo gli avvocati, chiusi in uffici enormi ai piani alti di uno dei grattacieli più iconici di Chicago. Un giorno vai bene, il giorno dopo sei fuori. Avanti un altro. Ma, appunto, quell'esperienza mi insegnò moltissimo».

Chiudiamo con la classica domanda di rito: la vittoria più bella?
«Cito una delle ultime, nel 2017, a Portimão, in Portogallo, Paese cui sono legato perché la mia compagna è portoghese e, prima ancora, avevo un manager lusitano. Era l’anno in cui avevo perso mio padre, in maggio. Feci questa gara strepitosa, battagliando con un pilota estremamente forte e dando il massimo. A caldo può essere questa la mia risposta. Poi, è chiaro, cito le mie due partecipazioni a Le Mans. Due momenti forti al di là del risultato, anche se riuscii a concludere entrambe le gare e, al secondo tentativo, per diverse ore rimanemmo in testa. Rifarei tutto, correrei di nuovo ovunque. Ma non credo che ci siano più le condizioni per farlo».