Basket

Quando Kobe Bryant si caricò gli USA sulle spalle

Il documentario di Netflix «The Redeem Team» racconta il riscatto americano alle Olimpiadi di Pechino 2008 dopo il flop di Atene 2004 - La compianta stella dei Lakers indicò la via
Fernando Lavezzo
14.10.2022 06:00

«Entro al supermercato, oppure vado a prendere un caffè, e tutti mi dicono la stessa cosa: ‘‘Riportateci l’oro’’. Incontro un tizio con la maglia dei Boston Celtics, penso che mi parlerà delle finali NBA e per questo vorrei ucciderlo. Invece no: ‘‘Riportateci l’oro’’. Nient’altro».

Nell’estate del 2008, Kobe Bryant è un uomo in missione per conto degli Stati Uniti. C’è un’onta da cancellare. Dopo il fallimento alle Olimpiadi di Atene 2004, chiuse al terzo posto, il basket americano vuole, anzi, deve vincere quelle di Pechino. Bryant, leggenda dei Los Angeles Lakers tragicamente scomparsa il 26 gennaio 2020, è il leader di una squadra che comprende anche quattro superstiti della disfatta greca: LeBron James, Dwyane Wade, Carmelo Anthony, Carlos Boozer. Con loro, tante altre stelle della NBA: Chris Paul, Jason Kidd, Chris Bosh, Dwight Howard... Sì, è una squadra da sogno. Ma invece di continuare a chiamarla Dream Team, come quella mitica di Barcellona 1992, la battezzano Redeem Team. La squadra del riscatto. Una storia di sport e orgoglio nazionale, ora raccontata in un documentario di Netflix.

Il mondo si avvicina

Tutto inizia a Barcellona 1992. Lì, per la prima volta, vengono ammessi i professionisti della NBA. Fino a quattro anni prima, la selezione americana era formata da universitari. Tuttavia, vinceva quasi sempre. Ai Giochi di Seul del 1988, però, gli USA persero in semifinale contro l’URSS. E allora in Spagna si cambia musica: Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird e compagni danno spettacolo, strapazzando tutti. «Il Dream Team non aveva nulla a che fare con il patriottismo», afferma nel documentario il popolare giornalista Sam Smith. «Non giocava per l’America, giocava per l’NBA». Già, Barcellona è un punto di svolta per la lega guidata dall’astuto commissario David Stern. Il marchio NBA diventa globale, ispirando i giovani di tutto il pianeta. E il basket mondiale inizia a colmare il divario. In Germania spunta Dirk Nowitzki, in Argentina Manu Ginobili, in Spagna Pau Gasol. Ai Giochi di Atlanta 1996 e Sidney 2000, gli USA confermano la loro supremazia olimpica. Ai Mondiali del 2002, però, arriva una débâcle, con un clamoroso sesto posto finale. Preludio del fiasco di Atene.

Un gruppo improvvisato

Quelli del 2004 sono i primi Giochi estivi dopo gli attentati dell’11 settembre. Da oltre un anno le truppe americane combattono in Iraq. Per ragioni di sicurezza e per paura del terrorismo, lo staff del Team USA incassa un rifiuto dietro l’altro dai giocatori più forti. Un’epidemia di rinunce: Vince Carter, Kevin Garnett, Ray Allen, Jason Kidd, Shaquille O’Neal. Kobe Bryant, dal canto suo, deve affrontare un processo per stupro, chiusosi con il ritiro delle accuse.

La squadra viene assemblata poco prima della partenza, i giovani LeBron James, Dwyane Wade e Carmelo Anthony – con il loro statuto di «future star» – vengono convocati solo due settimane prima del raduno. In Grecia, la squadra alloggia su una lussuosa nave da crociera ancorata al porto del Pireo, protetta da un’impressionante dispositivo di sicurezza. All’esordio, gli USA vengono malmenati da Porto Rico: 92-73. In semifinale, è l’affiatatissima Argentina di Ginobili a far fuori le individualiste vedette americane. «Eravamo un gruppo improvvisato a cui dissero di andare a vincere l’oro», racconta Carmelo Anthony. In patria, l’orrenda copia del Dream Team diventa materia per comici come David Letterman o per taglienti brani hip hop.

Tocca a «Coach K»

Dopo l’umiliazione, dopo aver commesso l’errore di sottovalutare avversari sempre più agguerriti, il Team USA lancia l’operazione riscatto. Jerry Colangelo, ex giocatore ed ex proprietario dei Phoenix Suns, viene messo a capo della missione. Carta bianca. La sua prima scelta è l’allenatore: Mike Krzyzewski, per tutti «Coach K», un semidio della panchina nel basket universitario, cinque volte campione NCAA con Duke. Non ha esperienza con i professionisti della NBA, ma gli viene affidato un progetto pluriennale. Non chiede ai giocatori di rinunciare al loro ego, bensì di metterlo al servizio della squadra. Cresciuto all’accademia militare ed ex ufficiale dell’esercito, Coach K invita alcuni eroi di guerra a parlare con i suoi ragazzi, durante il ritiro pre-Mondiale di Las Vegas del 2006. Tutti sembrano coinvolti. Eppure, al torneo iridato in Giappone, gli USA perdono ancora in semifinale, affondati dalla Grecia. È il terzo flop internazionale di fila.

Lo spirito di Kobe

Nell’estate del 2007, Las Vegas ospita il campionato americano. In palio, oltre al titolo continentale, ci sono due posti per Pechino 2008. Per rilanciare la squadra, lo staff punta su Kobe Bryant. Un vincente, certo, ma con la fama di egoista. Un solitario che in campo non ha veri amici. I Giochi, per Bryant, sono l’occasione perfetta per mostrare un’altra immagine di sé, più positiva. Accolto con diffidenza, a modo suo Kobe tranquillizza tutti sul suo desiderio di mettersi al servizio del gruppo: «Ci sto, sono stanco di vedervi perdere».

Sin dai primi allenamenti, Bryant influenza la squadra con la sua attitudine e la sua etica del lavoro. Rientrati da una notte brava, i compagni lo incrociano alle 5.30 del mattino nei corridoi dell’hotel. Sta andando in sala pesi. Il giorno dopo, tutti iniziano a imitarlo. Chi teme il dualismo tra lui e LeBron James, deve ricredersi. Diventano amici. Uniscono le forze per guidare il gruppo. La qualificazione ai Giochi è solo una formalità.

Una finale bellissima

In Cina impazziscono per Kobe. I cori sono tutti per lui. Stavolta la squadra vive al villaggio olimpico e vuole assorbire lo spirito dell’evento. Le star NBA vanno a tifare per i connazionali impegnati in altre discipline. Nella fase a gironi battono la Grecia, togliendosi subito un peso. Alla quarta giornata incrociano la Spagna, pure lei a punteggio pieno. Prima della partita, Kobe Bryant va a trovare Pau Gasol, suo compagno ai Lakers. Un fratello. Poi, nel primo minuto della gara, lo travolge apposta. Una carica al petto che stende il povero Pau. Un chiaro messaggio per tutti, compagni e avversari. «Ecco cosa sono disposto a fare per vincere». In semifinale va in scena l’attesa rivincita con l’Argentina. Passano gli USA, che in finale ritrovano la Spagna in una delle più belle partite mai giocate. Bryant e James sono subito condizionati dai falli, Wade ha la mano calda. La «Roja» non molla mai, ma alla fine deve arrendersi. Riscatto riuscito.

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