Il caso

Matteo Franzoso e la morte dietro l'ultima curva: «Ma proteggersi è complesso»

Il tragico decesso del giovane italiano, caduto durante un allenamento in Cile, ha riacceso i riflettori sul tema della sicurezza nello sci alpino - L'ex velocista e ora dirigente di Stöckli Marc Gisin: «Doveroso insistere, e però non scordiamoci che parliamo di atleti praticamente nudi, su lame di 220 cm, lanciati a 160 km/h sul ghiaccio instabile»
La morte dell’atleta italiano è sopraggiunta a poco meno di un anno da quella di Matilde Lorenzi, deceduta a 19 anni durante un allenamento in Val Senales. © KEYSTONE/ALESSANDRO DELLA VALLE
Massimo Solari
24.09.2025 21:00

Lacrime. E parole taglienti come le lamine dello sci più performante. I funerali di Matteo Franzoso, martedì a Sestriere, sono stati accompagnati da entrambe. La tragica morte dell’atleta italiano, deceduto alla vigilia del 26. compleanno a causa delle complicanze di un trauma cranico riportato dopo una caduta in allenamento a La Parva, in Cile, non smette di indignare e alimentare le discussioni. Famigliari, colleghi, allenatori, funzionari: le critiche sono state sollevate da più parti, praticamente unanimi, così come le richieste d’intervento. «Il sacrificio di nostra figlia non è servito a nulla» ha dichiarato la mamma di Matilde Lorenzi, anch’essa vittima di un incidente fatale mentre preparava la stagione agonistica in Val Senales, il 28 ottobre dello scorso anno. Ma alla luce dell’ultimo dramma vissuto in seno alla nazionale azzurra, non ha saputo trattenersi pure la sorella Lucrezia. «È arrivato il momento di fermarsi. Le parole fatalità e disgrazia non sono presenti nel vocabolario di un atleta professionista. Non si può partire per andare a sciare e non tornare più a casa». Rabbia e dolore, dicevamo, sono così tornati a mischiarsi ai quesiti. Domande riassunte in un post del velocista francese Adrien Théaux: «Quante morti tragiche dovremo sopportare prima di aprire finalmente il dibattito sulla sicurezza, in particolare durante gli allenamenti?».

«Io, sopravvissuto»

Il tema non è nuovo. Anzi, è insito in una delle discipline sportive più pericolose sul pianeta. E, di stagione in stagione, a fronte di seri infortuni, episodi gravi o rischi sventati in extremis, interroga e inquieta i protagonisti del circuito. Marc Gisin è uno di loro. Già quadro della selezione rossocrociata, il 37.enne oggi è direttore gare per Stöckli, marchio che produce gli sci di sua maestà Marco Odermatt. Gisin, insomma, riunisce due anime: quella dell’atleta e quella dello sviluppatore di materiali. Facce della stessa medaglia da mettersi al collo, sì, rischiando persino la vita.

Il decesso di Franzoso, va da sé, ha scosso pure l’ex sciatore elvetico. «Uno scenario terribile» afferma contattato dal Corriere del Ticino. «Ho pensato e penso alla sua famiglia, in particolare ai suoi genitori. Mi dispiace moltissimo». Gisin, oltretutto, parla per esperienza personale. Nel dicembre del 2018, in occasione della discesa libera sulla Saslong, in Val Gardena, guardò la morte negli occhi, complice una rovinosa caduta sulle Gobbe del cammello. «Quell’incidente, di fatto, ha decretato la fine della mia carriera. Ma sono anche sopravvissuto e non ho riportato danni permanenti, aspetto di cui sono molto grato». Franzoso, Lorenzi o, prima di loro, David Poisson, hanno conosciuto un altro destino. E allora vien da chiedersi se, per davvero, ai massimi livelli dello sci alpino non sia stata imparata la lezione. «Non è possibile registrare più morti che in Formula Uno o in MotoGp» la denuncia rimbalzata sul web e finita in bocca anche a figure di primo piano. «Osservando i numeri assoluti - indica il nostro interlocutore - si potrebbe pensare che non vi siano stati miglioramenti. Tuttavia, credo che negli ultimi anni siano stati compiuti diversi progressi in materia di misure di sicurezza e che si continui a cercare di limitare il più possibile i rischi».

Quel paragone con F1 e MotoGp

Gisin insiste e ritiene doveroso tenere ben separati motori e sci alpino: «Il paragone con la F1 o la MotoGp è per molti aspetti inappropriato. Da un lato si compete su neve o ghiaccio, superfici influenzate da molti fattori e soggette a mutamenti sia in allenamento, sia in gara. Il fondo stradale, al contrario, cambia solo leggermente, ad esempio in caso di pioggia. Inoltre, un pilota di Formula 1 è quasi completamente protetto dalla sua monoposto. E pure i piloti della MotoGp indossano innumerevoli protezioni, tute in pelle, spoiler, eccetera, che influenzano solo marginalmente le prestazioni della moto. Nello sci, per essere competitivi è necessario ridurre al minimo assoluto sia il peso, sia l’aerodinamica dell’attrezzatura. Detto altrimenti, il peso e le dimensioni maggiori del casco o delle protezioni comporterebbero una forza centrifuga sul corpo più marcata e una peggiore aerodinamica. Di conseguenza, un discesista è sostanzialmente costretto, tolto il casco, la protezione per la schiena e ormai anche l’airbag, a scendere nudo su lame di 220 cm a una velocità che può raggiungere i 160 km/h, su una pista ghiacciata, mutevole e instabile». Tutto ciò spinge Gisin a una considerazione per certi versi cinica: «L’attuazione e l’ulteriore sviluppo delle misure di sicurezza è quindi piuttosto complesso». Così come non è così semplice catalogare i differenti incidenti e le ragioni che li hanno prodotti. «Nel novembre del 2017 mi trovavo a Nakiska per un allenamento quando David Poisson perse la vita. L’incidente è avvenuto poco prima del traguardo, nell’ultima curva a sinistra, se ricordo bene. Ripensandoci, quel passaggio non sarebbe mai stato classificato come un punto pericoloso. E con questo voglio dire che solo perché un incidente o un punto del percorso sembrano innocui, ciò non significa che non possano comportare conseguenze fatali». Tradotto: «Anche zone apparentemente sicure possono causare gravi cadute».

È utopistico pensare che il produttore di sci debba porsi l’obiettivo di rendere le prestazioni il più possibile sicure
Marc Gisin, ex sciatore professionista e oggi direttore gare per Stöckli

Sci troppo veloci?

Sotto i riflettori, dopo la morte di Franzoso, sono finite le piste utilizzate per gli allenamenti delle varie federazioni. Rispetto a una gara di Coppa del Mondo, infatti, il grado e la tipologia delle protezioni - reti in primis - sono tendenzialmente peggiori. Di qui l’appello della FISI, la Federsci italiana, affinché a livello internazionale si identifichino alcune piste di velocità dedicate all’allenamento per tutte le nazionali. «La proposta - leggiamo - potrebbe interessare un paio di tracciati nell’emisfero Sud, per l’allenamento estivo, e qualche pista in Europa e Nordamerica per l’allenamento autunnale-invernale». Gisin concorda. E al contempo precisa: «Le misure di sicurezza delle destinazioni più utilizzate in fase di preparazione vanno portate a un livello pari a quello delle gare di Coppa del Mondo. Su questo punto è necessario perseverare, e forse con maggiore impegno. Tuttavia, ciò richiede risorse finanziarie, materiali e umane».

E i produttori che responsabilità hanno? «La verità è che gli sci attuali, specie in curva, sono troppo veloci» l’allarme lanciato da Kristian Ghedina. Quindi riformuliamo: Stöckli&Co sono parte del problema? Gisin non si nasconde: «È difficile rispondere a questa domanda. In qualità di fornitori, cerchiamo naturalmente di ridurre al minimo i rischi sia per quanto riguarda il materiale messo a disposizione, sia in termini d’assistenza agli atleti da parte del nostro personale di servizio. L’attrezzatura viene adattata il più possibile alle esigenze individuali di ogni atleta. Dagli sci alle lamine, passando per attacchi e scarponi, esistono innumerevoli possibilità di regolazione. Dal mio punto di vista, questa è una misura molto importante per quanto riguarda la discussione sulla sicurezza. Migliore è l’adattamento del materiale, più attivo, convinto e, in definitiva, sicuro può essere un atleta nell’affrontare allenamenti e gare».

«Insensato scaricare le colpe»

Già. Poi, però, vi sono le ambizioni di chi si presenta al cancelletto di partenza. E con esse la consapevolezza e l’ardore di assumersi più o meno rischi. «Ed è utopistico pensare che il produttore di sci debba porsi l’obiettivo di rendere le prestazioni del singolo il più possibile sicure» chiarisce Gisin. «Si tratta di uno sport agonistico e alla fine dei conti ciò che importa è che vinca il più rapido. La nostra missione, in accordo con l’atleta, è quella di progettare e preparare gli sci in modo che possa ottenere le migliori prestazioni». A fare la differenza, appunto, è una variabile su tutte. «La velocità, ingrediente dello show, è ciò che ci rende eroi» ha ricordato Federica Brignone in una fresca intervista al Corriere della Sera. E il rischio zero non esiste.

Gisin lo ha provato sulla sua pelle. E, al netto del ruolo occupato in seno a Stöckli, non intende cedere all’ipocrisia. «Come ho già sottolineato, parliamo di una competizione. S’impone chi firma il miglior tempo. E il migliore percorre le curve a velocità più elevate e con picchi di forza centrifuga più alti. Ritengo dunque che la natura stessa di questa disciplina, che prevede di scendere a 160 km/h su piste ghiacciate, sia parte del problema. Non credo abbia senso scaricare la responsabilità o la colpa delle cadute gli uni sugli altri. Dobbiamo cercare di rendere lo sci ad alto livello il più sicuro possibile, insieme, con i mezzi a nostra disposizione».

Nel mirino è finita soprattutto la FIS. FIS che a seguito della morte di Matteo Franzoso ha ribadito come «condizioni di allenamento sicure e competizioni tutelate richiedano non solo consapevolezza, ma anche un impegno fermo e condiviso da parte di tutta la famiglia dello sci». Okay, ma quali sono i margini di manovra? «Sarebbe opportuno che la FIS istituisse un fondo a cui le stazioni sciistiche e le federazioni possano attingere per finanziare le necessarie misure di sicurezza» ha indicato al Blick l’ex campione del Liechtenstein Marco Büchel. «In linea di principio, l’idea di Büchel mi piace» la replica del nuovo CEO della FIS Urs Lehmann. «Ma se si assicurano due dozzine di tracciati d’allenamento secondo gli standard della CdM, i costi ammonteranno a milioni. E dovremmo sicuramente discutere su chi dovrebbe contribuire ai costi».
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