Se la Champions è un'ossessione, allora l'Inter ha davvero una chance
Zlatan Ibrahimovic ha appena annunciato l’addio al calcio. José Mourinho è invece reduce dalla prima finale europea persa in carriera. Due ere che finiscono, per due personaggi che un filo sottilissimo lega all’ultimo atto della Champions League 2022-23. Già, cosa c’entrano lo svedese e il tecnico portoghese con la sfida tra Manchester City e Inter, in programma questa sera a Istanbul? Più che di ascendente, sarebbe meglio parlare di monito. O forse di un fantasma, pronto ad aleggiare sullo stadio Atatürk e sull’allenatore della formazione (stra)favorita: Pep Guardiola. Il 52.enne spagnolo vuole regalare al suo club uno storico «treble». Tradotto: la tripletta Premier, FA Cup e Champions. Ma a far vacillare Pep potrebbe essere proprio un altro «triplete». Quello conquistato dall’Inter nel 2010, ovvio.
La frase sussurrata da Mou
Rieccoci dunque a Ibra e a Mou. E al ritorno della semifinale di Champions tra Barcellona e nerazzurri disputato il 28 aprile di tredici anni fa. Al Camp Nou si consuma uno degli assedi più iconici della storia del calcio. L’Inter deve difendere il 3-1 capolavoro firmato a San Siro, ma da qualche secondo l’arbitro Frank de Bleeckere ha abboccato alla trappola di Sergio Busquets. Doppio giallo a Thiago Motta e oltre un’ora di superiorità numerica generosamente concessa ai catalani. In campo e in panchina, i padroni di casa sogghignano. Guardiola (allora tecnico dei blaugrana) ne approfitta per chiamare Zlatan (allora suo centravanti). Mourinho non resiste, raggiunge i due e sussurra una frase fulminea nell’orecchio del collega, prima di assestargli una pacca sulla nuca e andarsene. «Gli dissi semplicemente “non iniziare la festa, la partita non è finita”» svelò anni dopo lo Special One. Nonostante l’1-0 e un finale di gara drammatico, a festeggiare fu in effetti l’Inter. Premiato al termine di una prestazione tutto cuore e catenaccio e, nemmeno un mese più tardi, consacrato sul tetto d’Europa.
«La storia non conta»
Guardiola, all’epoca, non seppe scardinare la strenua organizzazione difensiva interista. Così come due anni fa, già alla guida del City, sbagliò completamente la lettura della finale poi conquistata dal Chelsea. Pure i Blues, come l’Inter, erano chiaramente sfavoriti. I nerazzurri, non a caso, sperano. Devono farlo, perché no, aggrappandosi anche agli episodi del passato. Oddio, a Guardiola un «triplete» era comunque riuscito, nel 2009 alla testa del Barcellona. E, per quanto preventivabile, Simone Inzaghi potrebbe cercare d’incanalare la finale odierna su binari differenti rispetto a quelli posati da Mourinho nel 2010 per ridimensionare Pep. Lo spagnolo, intanto, prova a giocare a nascondino. Predica calma e umiltà. «Proveremo a fare il massimo, in finale conta come ti comporti in quella partita, non la storia: nella storia l’Inter è meglio di noi, ma conta cosa devi fare. Sono 95 minuti in cui devi essere più forte dell’avversario: non importano le altre cose, devi essere più forte in quella gara». E il City, per l’appunto, si presenta in Turchia con l’etichetta riservata ai più forti.
Acerbi l’umano, Haaland l’avatar
I «Citizens», sin qui, non hanno praticamente sbagliato un colpo. Da un lato l’incredibile crescendo in Premier che ha finito per risucchiare l’Arsenal. Dall’altro le diverse lezioni di pallone impartite in Europa: 7-0 al Lipsia negli ottavi, 3-0 al Bayern Monaco nei quarti, 4-0 al Real Madrid in semifinale. L’Inter, da parte sua, ha sacrificato (e macchiato) il lungo cammino in Serie A, per dare il meglio di sé nel breve termine; sui 90 minuti, al massimo 180: Supercoppa, Coppa Italia e Champions League hanno insomma esaltato Inzaghi e una compagine anagraficamente (ma non solo) matura. Dal 37.enne ed ex Edin Dzeko al 35.enne Francesco Acerbi. Il difensore italiano, in qualche modo, è sintesi perfetta dell’attesa finale di Istanbul. Sono trascorsi dieci anni dagli esami che ne diagnosticarono un tumore al testicolo. Un corpo malato, per certi versi imperfetto. Poi guarito e comunque inevitabilmente segnato. Un fisico che, fra poche ore, sarà chiamato ad annullare una macchina all’apparenza senza difetti. Un avatar: Erling Haaland.
Il sogno di José e Dimarco
Nell’ultimo mercato estivo, mentre l’Inter e la proprietà Suning facevano i salti mortali per ottenere prestiti salva-vita, il bomber norvegese certificava la potenza dei nuovi padroni di Manchester. Per il City Football Group, controllato dallo sceicco degli Emirati Arabi Uniti Mansour bin Zayed Al Nahyan, la coppa dalle grandi orecchie è oramai diventata un’ossessione. L’ultimo scoglio fra la logica del successo - hai voglia, con dei fondi illimitati e una rosa che vale 1 miliardo di euro... - e la sua sublimazione. I giocatori in lista Champions dell’Inter, per dire, valgono la metà. E però possono affrontare l’ultima sfida della stagione a mente libera. Sognando. Ossessioni e sogni, già. Concetti che, di colpo, riesumano ancora lui: quel vecchio volpone di José Mourinho. Ricordate? «Per noi è un sogno, per loro è un’ossessione» dichiarò sempre nel 2010, trasformando la vigilia di Barcellona-Inter in una battaglia psicologica. E non sorprende che Federico Dimarco, terzino nerazzurro dai piedi educati, abbia citato proprio il portoghese in fase di presentazione. Sì, perché se la finale di Champions League fosse un’ossessione per il Manchester City, allora per l’Inter potrebbe davvero esserci una chance.