Sinner, Alcaraz o Djokovic: chi va alla ricerca di un coach?

C’è un aspetto, oltre a un talento indiscusso, che accomuna i volti più noti del tennis mondiale: Jannik Sinner, Carlos Alcaraz e Novak Djokovic. Ossia, i due fenomeni che capeggiano la classifica ATP e il giocatore più vincente della storia della disciplina. Infatti - seppur stiano vivendo momenti diversi all’interno delle rispettive carriere - tutti e tre sono confrontati con il medesimo rebus da risolvere. Implica, in un modo o nell’altro, il proprio staff tecnico. È una figura delicata e particolare, quella dell’allenatore, che nel corso della storia recente si è peraltro confrontata con delle mutazioni non indifferenti.
Le smentite di Carlos Moya
Ma procediamo con ordine, fornendo, innanzitutto, il contesto preciso in cui si trovano i protagonisti del circuito sopraccitati. Partiamo, per ordine di graduatoria, da Sinner. Ed è più sensato anche in termini cronologici, poiché proprio ultimamente il nome del numero uno del mondo è stato affiancato a quello di Carlos Moya. Lui, coach di Rafael Nadal negli ultimi otto anni di carriera del mancino di Manacor, era stato individuato quale rimpiazzo per Darren Cahill, che attualmente – assieme al fido Simone Vagnozzi – siede nel box di Sinner. L’australiano, lo ricordiamo, ha già chiarito di voler concludere la propria carriera al termine della stagione corrente e così, logicamente, da mesi si cerca di capire chi ne prenderà le veci. E sembrava – malgrado i dubbi espressi dalla stampa spagnola - per l’appunto, poter essere Moya. Quest’ultimo, tuttavia, nella giornata di ieri ha smentito categoricamente questa notizia, riportata dal portale russo Bolshe. «Una fake news grossa come una casa» - ha sentenziato a riguardo il diretto interessato. Evidentemente, allora, l’altoatesino è tuttora alla ricerca del profilo giusto che lo possa accompagnare in giro per il tour dal 2026 in poi.
Sul fronte Alcaraz, invece, non vi è alcun riscontro in merito a partenze ufficiali o ufficiose. Stando a quanto trapelato recentemente, però, la permanenza a lungo termine di Juan Carlos Ferrero si può definire tutt’altro che certa. Il rapporto tra i due – che collaborano da quando il classe 2003 aveva appena 15 anni – pare essersi leggermente incrinato. L’epilogo degli Internazionali d’Italia – dove il murciano si è imposto con autorevolezza – potrebbe aver calmato le acque, ma secondo alcuni, a Roma, la bomba era pronta a esplodere. La recente docuserie prodotta da Netflix e incentrata sullo stesso Alcaraz, d’altra parte, non lasciava presagire nulla di buono. E Djokovic? Nole, scientemente, è rimasto orfano di Andy Murray e per il momento non è in cerca di un nuovo allenatore. «Non credo ci sia bisogno di affrettare le cose – ha dichiarato durante la conferenza stampa che ha preceduto il suo debutto a Ginevra - mi sento a mio agio con le persone che mi circondano. Posso contare su Dusan Vemic, il quale sarà al mio fianco pure al Roland Garros. Inoltre, mi segue anche Boris Bosnjakovic, in veste di analista e assistente allenatore. Successivamente, vedremo cosa accadrà».
«Come in un matrimonio»
Il rapporto giocatore-allenatore, tanto più nel mondo del tennis, è delicato. Si basa su un equilibrio sottile e, a differenza di quanto accade nella maggior parte degli altri sport, è l’atleta a tenere le redini in mano. E non passa, solitamente, molto tempo prima di percepire la necessità di ricevere dei nuovi stimoli. «La finestra temporale è ristretta a tre o quattro anni - aveva riconosciuto a inizio anno Cahill - dopodiché, servono una voce e un’ispirazione diverse». Il dialogo tra le due parti, d’altronde, è giornaliero e ciò porta a delle collaborazioni sostanzialmente limitate. Ce lo ha confermato anche l’ex capitano svizzero di Coppa Davis, Claudio Mezzadri. «È normale che sia così, sono davvero pochi i casi in cui una partnership di questo tipo possa allungarsi a dismisura. Il rapporto - prosegue - si basa sulla fiducia e va altresì mantenuto vivo. Quando si perdono gli stimoli iniziali, diventa inevitabile una sorta di saturazione. In un certo senso, è un rapporto paragonabile a un matrimonio».
Nel corso degli ultimi anni, poi, c’è una nuova tendenza, quella di assumere i cosidetti «super-coach». Non tutti, per la verità - e qui si possono tirare in ballo Jack Draper o Lorenzo Musetti, che collaborano da diversi anni con degli allenatori poco noti - ricorrono a questa figura, che tuttavia va per la maggiore tra i top player. «Di tecnico c’è ben poco - precisa Mezzadri - si tratta, bensì, di fare affidamento su chi ha vissuto un certo tipo di esperienze in prima persona. Soltanto alcuni giocatori possono permettersi allenatori di alto calibro, capaci, loro stessi, di raggiungere traguardi eccezionali sul campo».
«Una manna dal cielo»
Oggigiorno, i tennisti sono confrontati a un numero di attenzioni inverosimili. L’impatto mediatico influisce, allora, anche sul loro modo di rapportarsi coi coach? «I giocatori devono far fronte a questa iper-esposizione che può essere pericolosa e causare enormi pressioni supplementari. Ormai, sono trasparenti agli occhi di tutti: non ci si perde neanche un battito di ciglia né una singola espressione facciale. Determinati atteggiamenti, dentro e fuori dal campo, non si possono più nascondere».
Infine, non va dimenticato che pure il tennis ha subito delle variazioni - da chi incentivate e da altri invece disprezzate - che hanno ulteriormente dato peso alla figura dell’allenatore. Un riferimento, va da sé, al coaching, divenuto ammissibile in qualsiasi evento. Un tempo - e lo stesso Mezzadri poteva farne uso - era previsto esclusivamente nei cambi di campo in Coppa Davis. Ora, lo scenario è differente ed entrambi i circuiti - seppur mantenendo una serie di regole - hanno abbracciato il cambiamento. «Per taluni è cambiato poco, mentre per un’altra fetta di giocatori questa è stata una manna dal cielo. È diventato un elemento determinante per migliorare le proprie prestazioni». L’allenatore, dunque, può diventare una vera e propria arma anche a match inoltrato. «Poter conversare in maniera regolare con qualcuno che sta al di fuori del campo, ha permesso ad alcuni di risolvere problemi legati all’insicurezza o alla mancanza di visione del gioco».