Tutti assolti, ma puniti

Mentre il nostro campionato di hockey su ghiaccio batte alle porte, perché non tornare a commentare la sentenza con la quale la giudice della Corte Superiore dell’Ontario, Maria Carroccia, nel corso dell’estate ha dichiarato non colpevoli i cinque giocatori di hockey su ghiaccio canadesi, tra cui Alex Formenton che conosciamo bene per aver portato la maglia dell’Ambrì, accusati di violenza sessuale?
Al di là di qualsiasi speculazione sul futuro di Formenton, che qualcuno sogna di rivedere alla Gottardo Arena, il caso si presta per riaprire un dibattito di vecchia data: cosa succede quando la giustizia legale e quella sportiva non sono allineate? Perché c’è un fatto non trascurabile legato a questa situazione, ossia che nonostante l’innocenza riconosciuta dal sistema giudiziario del loro Paese, e nonostante le vite dei cinque atleti difficilmente torneranno quelle di prima dopo un’esperienza così sconvolgente, il loro statuto di sportivi d’élite non potrà essere ripristinato, perché sia la National Hockey League, sia la Federazione hockeistica canadese hanno deciso di mantenere la sospensione decretata nei loro confronti, anche dopo la sentenza di non colpevolezza.
Se il giudizio della Corte non è discutibile (fatta salva la certezza del diritto che prevede la possibilità di appellarsi a un tribunale di livello superiore), la decisione delle autorità sportive per contro si presta a qualche obiezione, perché chiama in causa quello che di fatto è una sorta di abuso di potere dello sport, che si permette, grazie a regolamenti propri, di porsi al di sopra delle leggi adottate da uno Stato nell’ambito della sua sovranità giuridica. Non si tratta, a ragion veduta, di una novità nell’ambito sportivo, dove anche quando un comportamento non comporta necessariamente un reato penale, può violare dei regolamenti interni ed essere sanzionato. Nel caso di cui stiamo parlando, la NHL ha addotto motivi etici e di reputazione istituzionale per giustificare una posizione che però pregiudica irrimediabilmente le possibilità di carriera di cinque ragazzi riconosciuti innocenti dalla giustizia ordinaria.
Mentre questa è vincolata da principi costituzionali come la presunzione di innocenza o il principio in dubbio pro-reo, le federazioni sportive si attaccano a regolamenti propri, clausole contrattuali e codici di condotta che spesso in caso di inchieste disciplinari non garantiscono condizioni procedurali ineccepibili. Nonostante l’assoluzione, Michael McLeod, Alex Formenton, Dillon Dubé, Carter Hart e Cal Foote restano sospesi. La Lega ha sostenuto che, a prescindere dall’esito penale, il loro comportamento rimane «inaccettabile». L’Associazione dei giocatori della National Hockey League si è opposta con forza alla decisione, sostenendo che viola il contratto collettivo di lavoro in vigore. Tutto questo solleva importanti domande a cui lo sport non può sottrarsi di rispondere, pena la sua credibilità: è lecito che una federazione mantenga una sanzione quando i tribunali hanno assolto l’imputato? Dove finisce l’autonomia sportiva e inizia l’arbitrio istituzionale? E cosa succede ai diritti dell’atleta quando l’organo che impone la sanzione non è soggetto al controllo giudiziario? La risposta sta nell’azione civile, come è già avvenuto in passato. Un atleta o un club che si ritengono lesi da un punto di vista del diritto, possono chiedere un risarcimento per il danno che ritengono di aver avuto a livello economico o di reputazione. Il potere disciplinare dello sport non può mettersi al di sopra della legge di uno Stato e forse nell’ambito c’è molto lavoro da fare, per poter finalmente conciliare diritto sportivo e diritto ordinario.