Uno come Gimondi non morirà mai

La vita di Felice Gimondi finisce ai Giardini Naxos, in Sicilia, per un malore, ieri pomeriggio mentre faceva il bagno. A quasi 77 anni, li avrebbe compiuti il prossimo 26 settembre, uno dei più grandi campioni del ciclismo se ne va all’improvviso, lasciandoci di sasso.
Convinti, da bambini dentro, che uno così non sarebbe mai morto. Il pensiero, il primissimo, va alla moglie Tiziana. La retroazione alla statua della Nike, la dea greca della vittoria, eretta dallo scultore Carmelo Mendola proprio ai Giardini Naxos in quel di Capo Schisò. A due passi da quella spiaggia.
Felice era di Sedrina, paesino della Val Brembana, nella Bergamasca, e divenne campione subito: crebbe in un’Italia ancora in bianco e nero, prima del boom, a pane e cipolle. S’impose con la semplicità dei predestinati. Nel 1964, da dilettante, il Tour de l’Avenir. L’anno successivo, neoprofessionista alla Salvarani, lo squadrone diretto da Luciano Pezzi, terzo al Giro e poi il Tour vinto da matricola, contro Poulidor. Un’impresa che ne rivelò il talento: un purosangue, passista scalatore di altissimo lignaggio, versatile, capace di destreggiarsi sul pavé (nel 1966 fece sua un’esaltante Parigi-Roubaix) al pari dell’alta montagna e delle cronometro (ricordiamo pure, oltre alla doppietta nel Grand Prix des Nations 1967-68, le due vittorie al Gran Premio di Lugano). Un fuoriclasse che, diventato il numero uno del post Jacquot Anquetil, ebbe il privilegio (dubbio) di trovare sulla sua strada Eddy Merckx.
La nemesi non sua, bensì di una generazione intera: Gimondi, vessato ma non troppo dalla fame del Cannibale, riuscì comunque a costruirsi un palmarès sontuoso e si prese anche, verso la fine della carriera, delle rivincite. Il Mondiale al Montjuic, la collina di Barcellona, in un pomeriggio dai lunghi coltelli: lui contro Eddy, il delfino Freddy Maertens e Luis Ocana. Una figura ieratica, il Gimondi, che pareva eterna: quasi tre lustri da patron del gruppo, a gestire una fama che trasferì nella vita.
Smesso con l’agonismo ha lavorato per la Bianchi, ed è stato fra gli artefici del successo commerciale della mountain bike. Non aveva mai smesso di lavorare e pensare alla bici e al ciclismo, con la determinazione e la testa dura che gli erano tipici (e bergamaschi). Quando si ritrovava coi suoi gregari, alle cene degli ex della Salvarani e della Bianchi, si scusava, umile, dei rimbrotti e delle urla che spediva ai luogotenenti nei dì della gloria.
Dei mille aneddoti uno, svizzero, che lo legava al solito, maledetto Merckx: il Mondiale di Mendrisio del 1971. C’era Novazzano, la salita, a rendere durissimo un circuito inasprito dal caldo. C’erano Cyrille Guimard, Leif Mortensen e Georges Pintens. Ma rimasero, alla fine, loro due: il Cannibale, che avrebbe potuto accontentarsi dello sprint, nell’ultimo giro provò a staccare Gimondi per il gusto sadico dell’arrivo solitario. Fece forse 60 accelerazioni, che erano stilettate nelle gambe di Felice, sempre più ingobbito sulla sua Chiorda: ma il campione italiano non mollò, sino al traguardo, quando l’altro, strapotente, lo batté.
La sera, in albergo, Gimondi si lamentava del dolore alle braccia e alle mani. Aveva messo tutto se stesso per replicare a Merckx: si era attaccato al manubrio, sputando l’anima. Una divinità (sportiva) umanissima, Felice. Per noi, in fondo, non morirà mai.