Un viaggio tra storia, arte e natura
Itinerario
(ottobre 2010)
- 1° giorno Lugano - Zurigo - Yerevan
- 2° giorno Yerevan - Garni - Geghard
- 3° giorno Agarak - Aruch - Dashtadem - Harich - Gyumri
- 4° giorno Odzun - Haghpat - Sanahin - Tumanyan
- 5° giorno Dilijan - Lago Sevan
- 6° giorno Noraduz - Passo di Selim - Noravank - Yerevan
- 7° giorno Echmiadzin - Metsamor
- 8° giorno Erebuni - Artashat - Dvin
- 9° giorno Sevanavank - Saghmosavan - Amberd
- 10° giorno Yerevan - Zurigo - Lugano
Durata del viaggio: 10 giorni
Operatore turistico: AAT Associazione Archeologica Ticinese
Non si può non provare una simpatia istintiva per il popolo armeno, sopravvissuto nel corso di millenni a innumerevoli tentativi di conquista, assimilazione, conversione e annientamento. Eppure ha superato tutte queste prove atroci restando ancorato a due capisaldi: la fede cristiana, abbracciata nel 301, e la millenaria cultura fondata su una lingua, che si sviluppò in seguito all’invenzione di un proprio alfabeto nel 404 (si veda in questa rubrica l'articolo «La rinascita armena iniziò dalla laguna veneta»). Il giovane stato armeno, nato nel 1991 dopo lo sfaldamento dell’Unione Sovietica, occupa solo una piccola parte, circa un decimo dell’antica Armenia geografica, che i Romani chiamavano il Regno dei Tre Mari, siccome si estendeva dal Mar Nero, al Mar Caspio fino al Mediterraneo. L’Armenia odierna conta poco più di 3 milioni di abitanti, a fronte degli oltre 8 milioni di Armeni sparsi in tutto il mondo. Il suo governo democratico è ancora giovane e presenta ampi margini di miglioramento – la corruzione sembra diffusa – ma per la popolazione il collante rimane la religione. Alla mia precisa domanda su quali sono i rapporti tra stato e chiesa, Vahé, la nostra colta guida locale non ha avuto esitazioni a rispondere che il punto di riferimento principale rimane la religione, talmente radicata nell’anima del popolo per cui essere armeni è sinonimo di essere cristiani.
Un viaggio in Armenia è interessante perché permette di ripercorrere, grazie a numerose testimonianze, le tappe della sua tormentata storia a contatto con culture e civiltà diverse che hanno influenzato arte, lingua, cucina, usi e tradizioni popolari.
Una storia tormentata
Le leggende narrano che gli Armeni sono i discendenti di Haik, bisbisnipote di Noè, la cui Arca si arenò sul Monte Ararat dopo il diluvio universale. In onore a questa tradizione gli Armeni chiamano infatti la loro nazione Hayastan. Gli storici fanno invece risalire le origini di questo popolo alla seconda metà del II millennio a.C., quando in Anatolia orientale sorse uno stato unitario chiamato Urartu, che raggruppava varie tribù dislocate su un vasto territorio e che raggiunse il suo periodo di massimo splendore tra il IX e il VII secolo a.C. Ma per incontrare la prima dinastia armena, quella degli Orontidi, bisogna attendere fino al VI secolo a.C. L’Armenia raggiunse comunque la sua massima espansione (estese i suoi confini fino alla Cappadocia e a Gerusalemme) nel primo secolo a.C. sotto il regno di Tigrane II della dinastia degli Artassidi, che ottennero l’indipendenza grazie all’appoggio dei Romani. Il paese fungeva infatti da stato cuscinetto tra Romani e Parti. Sotto la dinastia degli Arsacidi, sentendo la pressante minaccia di assimilazione culturale da parte dei Persiani, ebbero luogo due avvenimenti che segneranno irrimediabilmente la storia di queste terre: la conversione al Cristianesimo nel 301 e la creazione dell’alfabeto armeno un secolo più tardi, nel 404. Saranno questi i due punti di riferimento costanti che salveranno nel corso dei secoli l’identità e la cultura di questo popolo nonostante le vicissitudini storiche avverse. L’Armenia fu dunque la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato. Gli arabi invasero l’Armenia per la prima volta attorno al 645. A partire da questa data iniziarono le pressioni per convincere il popolo a convertirsi all’Islam, ma venne poi raggiunto un accordo che permetteva agli armeni di continuare a professare il Cristianesimo. Nel corso del XIII secolo, i Mongoli di Tamerlano distrussero gran parte del territorio. Alcuni monasteri isolati e fortificati, giunti fino ai nostri giorni e principale meta dei viaggi turistici, furono però risparmiati e continuarono a svolgere una fondamentale funzione di formazione culturale e sociale. Dall’inizio del XVI secolo il territorio fu conteso per lungo tempo da due stati musulmani nemici: l’Impero ottomano sunnita, e la Persia sciita. Tre secoli più tardi l’esercito russo conquistò la maggior parte dell’Armenia persiana. Da allora una parte della popolazione rimase assoggettata all’Impero ottomano (Armenia occidentale) e una parte alla Russia zarista (Armenia orientale), con una piccola propaggine in Iran. Durante la prima guerra mondiale il popolo armeno era quindi diviso sui due fronti in guerra. Circostanza che diede il pretesto ai Turchi per tentare di eliminare gli Armeni, la cui presenza intralciava il grande progetto del panturchismo, con il quale si volevano unire tutti i popoli di origine turca del continente asiatico.
Una sintesi di civiltà diverse
Come si può notare da questo breve e sommario excursus storico il territorio armeno nel corso dei secoli è stato ripetutamente invaso e suddiviso tra diversi imperi che si sono succeduti: da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano, solo per citare i più importanti. «Nella cultura armena – come fa notare Nadia Pasqual, di lontane origini armene, sulla migliore guida in italiano di questo paese (cfr. Per saperne di più) – sono presenti i lasciti di tutte queste civiltà, che si ritrovano nell’arte, nella lingua, nella cucina, negli usi e nelle tradizioni popolari. Il contatto e la convivenza con popolazioni di lingua e religioni diverse hanno arricchito il patrimonio culturale armeno, ma non l’hanno modificato nei suoi fondamenti più profondi, che rimangono legati ai valori cristiani e al forte senso di appartenenza alla loro terra. Gli armeni – conclude Nadia Pasqual – si sono sempre riconosciuti come popolo e anche durante i lunghi periodi di assoggettamento straniero hanno coltivato il proprio patrimonio nazionale sviluppando una produzione culturale e artistica originale, della quale sono giustamente fieri e che oggi offrono con gioia ai visitatori». Per questi motivi, ben sintetizzati in questa citazione, l’Armenia merita davvero di essere visitata.
A Yerevan, testimonianze di un triste passato
Il nostro itinerario inizia con la visita di Yerevan, la capitale armena, dove i grigi palazzi dell’epoca sovietica convivono con i grattacieli moderni di stampo occidentale. Abbondano i musei che illustrano la ricca e tormentata storia di questo popolo. Sulle colline situate ai due estremi della città sorgono due monumenti simbolo: il Memoriale del Genocidio armeno, con l’annesso museo, e l’imponente e fiera statua di Madre Armenia, che sostituì quella di Stalin la notte stessa in cui giunse la notizia della sua morte.
Il memoriale che ricorda il genocidio armeno
All’alba del 24 aprile 1915 la polizia turca irrompe nelle case degli intellettuali armeni di Costantinopoli per arrestarli. È l’inizio del genocidio che nel giro di sette anni porterà all’eliminazione di oltre un milione e mezzo di persone: uomini, donne, anziani, bambini. Il memoriale che sorge sulla Collina delle Rondini ricorda questo crimine contro l’umanità. Un muro in basalto lungo 100 metri, che reca i nomi di città e province dove si sono svolti i massacri, conduce al memoriale composto da una stele alta 44 metri che è divisa in due per rappresentare le regioni occidentale e orientale del paese, ma al contempo è una sola per enfatizzare l’unità del popolo. Vicino alla stele, 12 lastre ripiegate verso il centro, dove arde una fiamma perenne, ricordano le regioni perse dell’Armenia occidentale. Il 24 aprile di ogni anno giungono fin lassù Armeni provenienti da ogni parte del mondo con un fiore in mano. Nella memoria di ognuno di loro esiste un tragico ricordo. Questo monumento è stato costruito nel 1967 in epoca sovietica.
Un museo ripercorre le tappe del genocidio
Accanto al memoriale, quattro anni dopo l’indipendenza raggiunta nel 1991, è stato edificato un museo a forma circolare. Documenta le atrocità commesse dai Turchi seguendo un preciso piano di sterminio del popolo armeno. Durante la visita si sente un pugno nello stomaco. Le foto e i filmati presentati ricordano un’altra vergogna della storia: l’olocausto degli ebrei. Si rammenta come Hitler rispondeva alle obiezioni dei suoi collaboratori, scettici sullo loro sterminio: «Qualcuno parla forse ancora dello sterminio degli Armeni?». Purtroppo aveva ragione, l’annientamento di un intero popolo sembrava destinato all’oblio a causa del cinismo della Realpolitik di molti stati. Eppure non era mancato chi, al momento dei massacri, aveva rischiato la propria vita per denunciare in modo documentato quanto stava accadendo. A costoro e ad altri che hanno aiutato le vittime sono dedicate lapidi e iscrizioni all’interno del museo. Faccio un solo nome, quello del medico tedesco Armin Wegner, collaboratore dell’esercito turco, che lasciò il fronte portando con sé una documentazione fotografica sconvolgente. Ricordo una sua foto esposta al Museo del Genocidio in cui si vede un soldato turco mostrare sprezzante un tozzo di pane a un gruppo affamato di bimbi cadaverici, che non hanno più nemmeno la forza di alzarsi per afferrarlo.
Il genocidio del 1915-22 non è purtroppo un episodio isolato. Già nel 1894-96 si stima che vennero sterminati due-trecentomila Armeni residenti nell’Anatolia orientale, ai quali vanno sommate le centinaia di migliaia di persone che dovettero fuggire o furono costrette a convertirsi all’Islam per avere salva la vita (secondo alcune stime armene i loro discendenti che attualmente vivono in Anatolia orientale, in gran parte mischiati con i Curdi, superano addirittura i 2 milioni). Nel 1909 seguirono altri massacri di 30 mila persone in Adana e in Cilicia. Non solo i Turchi si accanirono contro questo popolo. Anche le Grandi purghe di Stalin fecero migliaia di vittime, dopo che nel 1920 la giovane Repubblica armena nata nel 1918 fu assoggettata all’Unione Sovietica.
Il sacrario della cultura armena
Un altro monumento significativo della capitale armena è il Matenadaran: la «biblioteca» di manoscritti ameni per eccellenza, considerata il sacrario della cultura armena. Si erge come una cattedrale in cima al viale più importante di Yerevan. Dedicata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mesrop Mashtots la cui statua troneggia all’entrata, custodisce 17 mila manoscritti, in gran parte armeni, e 100 mila documenti medievali e contemporanei. All’interno una fiera scritta avverte il visitatore: «Seppur siamo una piccola nazione, anche noi abbiamo compiuto opere di prodezza e di valore che crediamo meritino di essere ricordate». L’orgoglio con cui la nostra apprezzatissima guida locale, Vahé, ci mostra quei preziosi manoscritti salvati dalle malvagità della storia è commovente.
Nella neoclassica e suggestiva Piazza della Repubblica, restaurata con garbo, accanto alla sede del governo e di alcuni ministeri, un edificio imponente ospita il Museo di Storia dell'Armenia che illustra le principali tappe dal paleolitico all’epoca moderna. Le sale più suggestive sono quelle iniziali dove sono esposti reperti di eccezionale qualità artistica, che attestano l’elevato grado di questa civiltà nell’antichità, sin dall’epoca urartea risalente al primo millennio a.C. Ma l’oggetto forse più eccezionale è una scarpetta, la più antica mai scoperta al mondo, che risale a 5500 anni fa, recentemente rinvenuta in una grotta.
Monasteri e fortezze in una natura selvaggia
Dopo la visita di Yerevan ci inoltriamo all’interno del paese, dove l’architettura religiosa, dato l’alto significato del Cristianesimo nella storia armena, costituisce certamente l’elemento caratterizzante. Chiese e monasteri sono spesso appollaiati sopra dirupi o situati in magnifiche vallate, dove il corso delle acque ha scavato profondi canyon. Ma sono interessanti anche le visite alle fortezze – erette in luoghi impervi per difendere il territorio dalle continue invasioni – e ai caravanserragli, siti di sosta per i commercianti che percorrevano la mitica «Via della Seta». Al di fuori della capitale Yerevan, dove vive un terzo dei 3 milioni di abitanti (mentre all’estero se ne contano quasi 9 milioni), il paesaggio è agreste, spesso senza vegetazione, dato che si superano sovente i 2000 metri di altezza. Dietro qualsiasi curva della strada bisogna essere pronti a frenare perché molto spesso le mandrie di mucche o di pecore scambiano l’asfalto per il pascolo. Zona vulcanica ad alto rischio sismico, l’Armenia in molte regioni offre visioni lunari. Il lago Sevan (il terzo lago più alto del pianeta, situato, con i suoi 110 km2 di superficie, a 1900 metri) offre uno dei paesaggi più suggestivi: di un color azzurro scuro si contrappone al marrone delle montagne desertiche. Il tragitto che lo collega a Yerevan, attraverso il passo di Selim, è particolarmente affascinante. Si attraversano profonde pareti rocciose per raggiungere paesaggi desertici dove improvvisamente spuntano villaggi verdissimi, simili ad oasi, in mezzo a montagne spettrali. I paesini sono rurali e molto poveri, ma il territorio, salvo durante il rigido inverno, è molto fertile. E di spazio non ne manca. A tratti abbiamo attraversato zone viticole, dove per affrontare temperature che scendono di molti gradi sotto lo zero i contadini, una volta colta l’uva, devono interrare i tralci per dissotterrarli in primavera. Il paesaggio forse più straordinario è la vallata in cui si trova il Monastero di Noravank. Si attraversa per 8 chilometri un canyon con pareti altissime di color rosso e giunti nel fondovalle si scorge il monastero in uno spettacolare scenario di rocce rosate.
L’architettura religiosa «regno di pietre urlanti»
Il poeta russo Osip Mandelstam definì questa terra, dove ogni pietra narra la storia del suo popolo, «regno di pietre urlanti». E in effetti tutti gli edifici sono stati costruiti in basalto, perché offriva maggiore resistenza alle devastazioni. L’architettura religiosa, con le sue soluzioni originali che avrebbero influenzato notevolmente lo stile degli edifici sacri in tutta Europa, è senz’altro quella che più caratterizza l’Armenia. Come fa notare lo storico dell’arte italiano Alberto Alpago-Novello, l’architettura sacra armena si distingue per semplicità e chiarezza, per la presenza di volumi geometrici elementari organizzati in modo simmetrico. Tanto che Cesare Brandi in un famoso articolo intitolato «Le chiese di cristallo» associava «questi volumi di forme elementari, organizzati secondo assi simmetrici con una rigorosa logica di tipo geometrico-matematico, alle formazioni cristalline naturali».
Per capire queste costruzioni bisogna distinguere due periodi. Dal VII al IX secolo l’architettura medievale presenta due aspetti originali: da una parte l’inserimento della cupola al centro della chiesa ricorrendo a soluzioni statiche interessanti e spesso ardite, dall’altra un certo contrasto tra un esterno monumentale e quadrangolare e un interno molto lineare e luminoso.
Dal IX al XIV secolo, invece, sorgono importanti monasteri che riprendono i motivi architettonici precedenti, ma con l’aggiunta di nuove esperienze. È in questo periodo che nasce il cosiddetto «gavit», elemento tipico dell’architettura armena, tanto che non esiste una traduzione italiana di questo termine. Si tratta di una sala collocata davanti all’entrata che fungeva da vestibolo, luogo di sepoltura riservato ai notabili e di ritrovo per i cittadini. Non solo i cristiani, ma anche gli infedeli potevano incontrarsi qui e discutere, socializzare e commerciare. L’ingresso in chiesa era invece consentito solo a chi era battezzato.
Complessi monastici immersi nella natura
«La scelta di costruire i complessi monastici in posizione dominante in fondo a profonde valli o sulla cima di altopiani difficilmente accessibili – scrive Nadia Pasqual nell'opera già citata – garantiva la sicurezza di questi edifici che avevano la fondamentale funzione di produrre e conservare il patrimonio culturale nazionale e che in alcuni casi divennero anche importanti centri politici. Questi ambienti impervi e isolati facilitavano inoltre il raccoglimento e la concentrazione necessari ai religiosi per coltivare la profonda spiritualità che ancora oggi ammanta questi luoghi carichi di suggestione».
Un altro simbolo dell’Armenia sono i khachkar: letteralmente significa croci di pietra. Si tratta di lastre di pietra finemente scolpite per rappresentare simboli cristiani, spesso la croce. Sono presenti in quasi tutti gli edifici religiosi – chiese, monasteri, cimiteri – incastonati nelle pareti o piantati nel terreno. In tutto il paese ne sono state censite oltre 30 mila. A me sono rimaste in particolare nella mente le numerosissime lastre presenti nel suggestivo cimitero di Noraduz, che sorge sulle rive del lago Sevan. Camminare tra queste tombe sepolcrali indorate dai licheni in una giornata di sole in riva al lago incoronato dalle montagne è un’esperienza davvero indimenticabile.
I principali siti archeologici
Essendo il nostro viaggio organizzato dal'Associazione archeologica ticinese, un’attenzione particolare è stata dedicata alla visita dei principali siti archeologici. La maggior parte si trova negli immediati dintorni della capitale Yerevan. Il più antico è Agarak, scoperto di recente. Risale al 2800-2600 a.C. e sorge su una base naturale in basalto. Sembra si trattasse di un luogo di culto, che si estendeva su un’area molto vasta.
Il sito forse più affascinante, Metsamor, appartiene invece all’epoca urartea attorno al 1200 a.C. Il luogo era noto come centro metallurgico - si vedono ancora le fornaci - e soprattutto per le sue attività astronomiche. Sembra che gli studiosi dell’epoca avessero individuato le costellazioni, fossero riusciti a suddividere l’anno in dodici periodi e conoscessero la stella Sirio che decretava l’inizio del nuovo anno. Conoscenze che venivano utilizzate per il culto, ma certamente preziose anche per l’agricoltura e quindi per organizzare la vita economica. Il museo annesso espone i reperti trovati durante gli scavi, soprattutto nelle tombe dove i notabili venivano seppelliti con i loro schiavi. La presenza di una splendida ranocchia in pietra e di un sigillo di fattura mesopotamica indicano come il commercio fosse già molto sviluppato.
Pure di epoca urartea è Erebuni, situata alle porte dell’attuale Yerevan e fondata nel 782 a.C. in un’epoca di relativa stabilità politica. Della città rimangono le fondamenta della muraglia, del palazzo reale, dei vasti magazzini, dei quartieri militari e dell’area sacra. Nel museo annesso si possono vedere le tubature in pietra completamente chiuse che servivano per trasportare l’acqua dalla montagna lontana 40 chilometri.
Con la visita di Garni ci spostiamo invece in epoca romana. L’edificio più suggestivo, in parte ricostruito dai sovietici, risale al 77 d.C. Fu edificato in basalto, caratteristica che lo differenzia dagli altri templi romani, con il denaro che Tiridate I d'Armenia ricevette dall’imperatore Nerone.
APPENDICE
La tragedia armena nel romanzo di Antonia Arslan
La letteratura costituisce certamente un forte incentivo a viaggiare. Chi non ha mai sognato di visitare i luoghi che fanno da scenario al suo romanzo preferito? A me piace, quando ciò si rivela possibile, concretizzare questi sogni e partire per vedere «dal vivo» i paesaggi dei libri che leggo. Qualche volta però succede il contrario: si visita un paese, si scoprono orizzonti fino a quel momento sconosciuti, si gustano cibi particolari, si ascoltano musiche nuove e nasce il desiderio di accostarsi alla letteratura. Come scrivono gli autori di quel paese? Come vedono la loro realtà? Quali i loro pensieri, il loro vissuto, i problemi che affrontano? Così è successo per l’Armenia. Dopo il viaggio appena descritto, e soprattutto dopo la sconvolgente visita al Museo del Genocidio a Yerevan, mi sono trovato a cercare scritti su questo tema. E nella biblioteca di casa ecco un libro dalla copertina suggestiva che mi ha colpito: «La masseria delle allodole».
Quanta forza possano avere le pagine di un libro lo ha dimostrato proprio il successo di quest’opera, che ha segnato l’esordio narrativo di Antonia Arslan (Rizzoli 2004). Muovendosi con sensibilità nel territorio fertile di emozioni che si situa tra ricordi familiari, ricerca storica e invenzione poetica, la Arslan (in origine Arslanian) ha raccontato le vicende armene con tale intensità da attirare l’attenzione di un pubblico vasto, che si è allargato ancora di più quando dal romanzo è stato tratto un film diretto dai fratelli Taviani.
Il genocidio armeno è giunto così nelle case dei lettori – e degli spettatori – con grande forza.
Antonia Arslan è nata a Padova da una famiglia di origine armena. Laureata in archeologia, per molti anni ha insegnato presso l’università della sua città, pubblicando nel contempo saggi letterari, contribuendo alla traduzione dell’opera del poeta armeno Varujan e curando opere inerenti la storia del genocidio.
Il salto verso il narrativo è del 2004. «Non potevo farne a meno» ha più volte ripetuto. E forse la spinta è arrivata dai ricordi d’infanzia: quel nonno serio e severo, che l’accompagna a trovare «il suo santo» nella basilica padovana e che nei suoi tardi anni condivide con lei le immagini mai cancellate della sua patria lontana. Quel nonno arrivato in Italia da ragazzino per frequentare il Collegio Armeno di Venezia, prestigiosa scuola per i rampolli delle famiglie più importanti della piccola nazione, e che non aveva mai più potuto tornare nella sua terra d’origine. Quel nonno che aveva sognato di portare in Armenia la moglie italiana e i suoi figli, la famiglia che nel frattempo si era creato in Italia, un progetto a lungo accarezzato con il fratello rimasto a casa e bruscamente spezzato proprio dai fatti del 1915. I maschi Arslanian brutalmente uccisi, le donne e i bambini spinti con altre migliaia di Armeni verso il deserto siriano in una marcia forzata che ogni giorno faceva le sue vittime tra fame, febbre e violenze. Rinuncerà il nonno – dopo questo orrore – al suo passato, concedendosi solo nei suoi ultimi anni la nostalgia per quella terra, per gli affetti familiari perduti, per i sapori e i colori della sua infanzia. Una nostalgia che passerà alla nipotina e che costituirà – molti anni dopo – il motore della ricerca alla base della «Masseria delle allodole». I profumi dell’Oriente (quelli del pane, dello yogurt, dei dolci), le abitudini particolari di un parentado che dopo la diaspora (qualcuno in effetti si salverà) si espande su diversi continenti, le parole del nonno che ricorda la casa antica sulle colline e le dolci giornate di vendemmia: l’eco di quella cultura si fa materia di studio delle proprie origini, ma anche di pagine di storia che non possono cadere nell’oblio.
Per saperne di più
- Amenia, Polaris, Firenze 2010
- Georgia, Armenia, Azerbaigian, Lonely Planet, Milano 2008
- Armenia, Braot, Bucks (England), 2003
- Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001