Confronti

«Col coronavirus siamo come gli antichi ticinesi di fronte alla peste»

Un paragone tra le pandemie dei secoli passati e l’epidemia di oggi con lo storico Antonio Gili
Due appestati, riconoscibili dai bubboni, in un’antica miniatura francese.
Carlo Silini
07.03.2020 14:07

Pare che, grazie al coronavirus, molti abbiano riscoperto il Manzoni e il suo grandioso racconto della peste di Milano nel 1630 ne I promessi sposi. Ma un morbo che tocca Milano prima o poi finisce anche da noi, allora come oggi. E, allora come oggi, le reazioni di fronte alla malattia sono sorprendentemente simili. Parola dello storico ticinese Antonio Gili (sotto, nella foto Zocchetti).

«Anche se sono passati secoli da allora, in questi giorni – ci piega Gili, già responsabile dell’Archivio storico di Lugano - sono rimasto impressionato dalle analogie tra i comportamenti sociali e collettivi dell’epoca della peste con quelli odierni inerenti al coronavirus. Su altri aspetti, invece, ci sono molte differenze». Non ci credete? Andate a leggere il suo saggio dal titolo L’uomo il topo e la pulce. Epidemie di peste nei territori ticinesi (XV-XVII sec.), pubblicato nel dicembre 1986 sulla rivista Pagine Storiche luganesi, n. 2.

Le tre ondate del Seicento

Partiamo dalle differenze. Attingiamo a quel testo per osservare che, facendo gli scongiuri, per ora il paragone peste-conronavirus non regge sul fronte dei numeri. Nella lunga ondata tra il XVI e il XVII secolo, la peste uccise in Europa 25 milioni di persone. In Svizzera il primo ciclo pandemico del ‘600, nel periodo 1608-1619, colpì diversi cantoni sovrani ma risparmiò i baliaggi elvetici meridionali, eccetto che nel biennio 1610-1611 in cui la peste dal Gottardo passò in Leventina e scese fino a Bellinzona. Il ciclo pandemico 1617-1639 registra invece epidemie un po’ in tutte le parti dei domini svizzeri e nelle Valli superiori ticinesi.

Anche sulla provenienza del morbo c’è una significativa divergenza. I casi svizzeri di coronavirus si devono soprattutto al passaggio di nostri connazionali in Lombardia: da sud a nord. La peste dei Promessi Sposi fece invece la strada inversa: «Nel Sopraceneri vi fu peste già nel 1629 e negli anni seguenti essa contagiò anche il Sottoceneri estendendosi a tutto il Nord Italia: è questa la famosa peste del 1630 di cui narra il Manzoni». Il Sottoceneri, dice Gili, «dovette fare i conti con una nuova ondata tra il 1635 e il 1637. Ma l’ultima manifestazione della malattia in territorio ticinese sembra cadere agli anni 1656-58 quando la peste nel regno di Napoli, Stati Pontifici e Genovese ebbe riscontri in Mendrisiotto».

Le colpe dei soldati

A portare il morbo nell’attuale territorio ticinese, ma in definitiva anche in Lombardia, furono i soldati del nord (sopra: soldati lanzichenecchi in un’antica stampa). «Il rapporto di causa-effetto tra il passaggio delle truppe tedesche imperiali ed il diffondersi delle epidemie è cosa nota», ci spiega Gili, «e merita particolare attenzione nelle nostre terre, le cui strade hanno rappresentato la tradizionale via di comunicazione tra il Paesi tedeschi nord alpini e quelli italiani a sud delle Alpi. L’epoca esemplare per il binomio eserciti-pestilenza è stata quella della Guerra dei trent’anni tra il 1618 e il 1648, con continui spostamenti di milizie e movimenti di truppe che contribuirono a creare ai bacilli pestilenziali».

Nella lunga ondata tra il XVI e il XVII secolo, la peste uccise in Europa 25 milioni di persone

E così, se molti oggi temono l’arrivo dei cinesi o dei lombardi di Lodi, all’epoca si temeva il passaggio dei soldati nordici. Non solo per ragioni di contagio. «Lo attesta un singolare episodio che riguarda Mendrisio di cui parla lo storico Baroffio e che ho citato nel mio saggio», osserva Antonio Gili. «Nel marzo del 1627 tra la popolazione girava voce che tremila uomini di un corpo di truppa polacco erano stati licenziati a Milano senza paga e privi di sussistenza e dovevano passare da Mendrisio. Allora il borgo, dice il Baroffio, brandì le armi e chi non ne aveva si munì di falci e badili. Il console Giovanni Quartirone fece chiudere le porte e sbarrare con catene e alberi rovesciati le pubbliche strade. Si aspettavano un arrivo apocalittico, ma per fortuna alla fine giunsero solo poche centinaia di soldati che stettero alla larga dal paese».

Occhio alle pulci e ai topi

Un’ultima drammatica differenza riguarda le conoscenze mediche. Nel caso del coronavirus non è ancora stato messo a punto un vaccino e forse ci vorrà un anno per trovarlo. In quello della peste, osserva Gili, la scienza di allora ignorava la vera fonte del contagio, che «dipendeva dall’abbondanza di pulci e topi». A quei tempi si faceva riferimento alla cosiddetta teoria miasmatica di Ippocrate e di Galeno. «Esatto, ritenevano che tutto dipendesse dalla corruzione dell’aria e dell’atmosfera. Erano convinti che i miasmi pestiferi si creassero per corruzione della materia nelle paludi. Credevano insomma nella generazione spontanea della peste. O, al massimo, nell’influenza degli astri, come pensava l’arabo Avicenna».

Era proibito vuotare i vasi da notte dai balconi il cui contenuto confluiva sottoterra e non nei canali delle strade. C’era il divieto di cibarsi con animali morti naturalmente

Di conseguenza, le misure di igiene pubblica si concentravano sulla vigilanza su tutto ciò che marciva: cadaveri, pozze, cibi. «Le grida dei landfogti», ricorda Gili, «ratificavano le decisioni dei deputati alla Sanità e vietavano di ostruire rigagnoli di scolo nelle strade, imponevano la rimozione di rifiuti domestici, la protezione di pozzi e la guerra all’inquinamento suino. Bisogna pensare che a quei tempi i maiali vagavano liberi. Era poi proibito vuotare i vasi da notte dai balconi il cui contenuto confluiva sottoterra e non nei canali delle strade. Era proibito cibarsi con animali morti naturalmente. C’era il divieto di mischiare vino nuovo e vecchio (per il rischio di putrefazione)».

Gli eventi annullati

Passiamo ora a qualche similitudine. Gili ne tratta nel quarto capitolo del saggio citato, Aspetti economici, demografici, sociali e religiosi della peste nelle comunità ticinesi. Una riguarda gli assembramenti. Se oggi si giocano i derby di hockey a porte chiuse e si annullano eventi come i carnevali o il salone dell’auto a Ginevra, nei secoli passati «le fiere venivano abolite o sospese se erano già in corso perché capivano che l’assembramento di mercanti e popolo favoriva la diffusione del contagio».

A volte bastava un episodio per scatenare angosce incontrollate. Nel 1628, racconta Gili «all’inizio della fiera di Lugano, in settembre, era morto un ragazzino di Lamone per rottura di una vena da cui uscì molto sangue. I forestieri fuggirono a gambe levate pensando che il poveretto fosse vittima della peste. Le autorità luganesi si videro costrette a mandare due dottori a Varese per convincere gli ufficiali della sanità a mandare dei medici a Lamone per dimostrare che il ragazzo era morto per la ferita e non per il morbo. Varese confermò questa versione dei fatti e a Lugano fu evitata la sospensione del commercio da parte varesina».

A Lugano, gli introiti del commercio e quelli dei comuni del contado venivano meno, senza contare le spese per il mantenimento delle persone segregate

I danni economici

A proposito di commercio, abbiamo visto nei giorni scorsi le scansie vuote di molti supermercati in Nord Italia. Nel Seicento era peggio perché, viste le difficoltà di approvvigionamento e la scarsità di vettovaglie, i venditori ne approfittavano per fare la cresta. «Al punto che i deputati della sanità di Lugano nell’agosto del 1636 si erano visti costretti a obbligarli a non alzare i prezzi comuni» ci spiega Gili. La peste poteva isolare commercialmente un centro come Lugano mettendo a dura prova la sua economia. «Gli introiti del commercio del borgo e quelli dei comuni del contado venivano meno, senza contare le spese per il mantenimento delle persone segregate. Perché quando scoppiava un’epidemia le autorità dovevano rintracciare fondi pubblici per aprire e mettere in funzione i lazzaretti e gli altri luoghi di quarantena».

Gli «untori» del nord

Ai tempi della peste, osserva poi il nostro interlocutore, i controlli nell’attuale Ticino avvenivano, per così dire, per via italiana. «Esatto. D’intesa coi landfogti svizzeri, i Tribunali della sanità di Milano e di Venezia inviavano appositi commissari nei baliaggi ‘di qua dai monti’ che erano considerati il naturale cordone sanitario dell’Italia settentrionale anche sotto la dominazione elvetica. Dal canto loro, i commissari stilavano dei rapporti sul posto. E nel periodo del contagio risiedevano nelle principali località ‘ticinesi’, sulle vie di traffico e nei posti di blocco strategici. Erano quindi i commissari milanesi a controllare i deputati alla sanità ‘ticinesi’, che venivano scelti tra le persone del luogo: non sempre erano medici».

I controlli al confine

Si è molto parlato, nei giorni scorsi, dell’ipotesi di bloccare le frontiere per impedire l’accesso a eventuali contagiati dal coronavirus. «Quando imperversava la peste nei secoli passati, commenta Gili, per proteggersi si ricorreva a veri e propri cordoni sanitari. In pratica, si istituivano dei posti di guardia, tecnicamente noti come ‘restelli’, composti da transenne, steccati o muretti di sasso che spesso erano affidati a minorenni o analfabeti».

Per la cronaca (e per capire la loro diffusione capillare) ce n’erano ad Altdorf, Airolo, Faido, Pollegio, Roveredo, Giubiasco, Cadenazzo, Gambarogno, Bironico, Ponte Tresa, Riva san Vitale, Capolago, Porto Ceresio, Mendrisio, Rancate, Balerna e Chiasso. In tempo di peste poteva transitare solo chi era in possesso di un lasciapassare sanitario, o ‘fede’ (sopra: un lasciapassare leventinese). Di solito si trattava di mercanti, autorità sanitarie, corrieri di posta e cavallanti per il vettovagliamento. Ma venivano comunque scortati da un restello all’altro da apposite guide. Qui potevano ricevere qualcosa da mangiare dalle guardie e dormire in una stalla».

I restelli

Se oggi ci si comincia a preoccupare per il collocamento ospedaliero dei contagiati dal coronavirus e i pazienti vengono smistati nelle tende davanti al Pronto Soccorso, nel passato il «triage» avveniva nei restelli. «Sì, se c’erano dei sospetti, venivano messi in quarantena, o contumacia. Originariamente i viaggiatori provenienti da luoghi infetti con le loro merci erano segregati, osservati e disinfestati per un periodo di 40 giorni. Ogni borgo metteva guardie ai portoni, nei punti strategici e sulle vie di accesso, mentre nei villaggi del contado c’erano capanne (‘gabbane’) appositamente costruite, cascine o stalle già esistenti ed espropriate dai deputati alla sanità. In quelli più ricchi c’era il lazzaretto che veniva amministrato da un ‘hoste’».

A Lugano ce n’era uno nell’area dell’antico castello (attuale zona parco Ciani), uno a San Rocco (nella foto CdT sotto) e uno al convento degli Angeli gestito dai frati minori del convento.

Il numero dei morti

Una differenza macroscopica tra peste e coronavirus riguarda il numero dei morti. Tra le varie epidemie, in Svizzera, dal 1565 al 1610 la peste fu all’origine del 14,5% dei decessi. «Era un fattore determinante per la crescita o il declino della popolazione».

Va detto che le vittime della peste non erano tanto gli anziani (come nel caso del coronavirus) o i bambini. Il morbo uccideva più femmine che maschi , ma soprattutto i giovani tra i 10 e i 20 anni. «Tant’è vero che dopo la peste ci volevano da due a tre nuove nascite per sostituire un adulto deceduto e da quattro a sei per una coppia. Con sette, otto nuove nascite si poteva sperare in un aumento del numero di adulti e in una ripresa demografica».

I monatti

Un ultimo appunto comparativo riguarda le professioni a rischio contagio, quelle a diretto contatto con i malati o i morti. Allora come oggi i più esposti erano i membri dell’apparato medico-sanitario. Nei secoli passati i pericoli maggiori li correvano quindi i monatti, cioè gli affossatori.

«Proprio così» conclude Gili, «spesso erano dei poco di buono, avidi di denaro. Perché il lavoro era pericoloso e sovente si ammalavano anche loro. Perciò chiedevano molti soldi ai deputati alla sanità. Armati di scope, calcina per cadaveri e pareti - le loro povere armi - si dividevano in due categorie: i ‘brutti’, cioè i necrofori e i ‘netti’ ovvero i disinfestatori. Meritano anche loro un tributo, in particolare non dobbiamo dimenticare i ‘ticinesi’ che si erano distinti in questo ingrato compito. Durante la cosiddetta ’peste di san Carlo’ nel 1576 a Milano in prima fila c’erano molti bleniesi e leventinesi. E non poche donne».

Le fake news sugli untori viste da Lugano

All’inizio della crisi sul coronavirus circolava la bufala che il virus fosse stato creato in un laboratorio batteriologico. Nel Seicento tra le fake news sulla peste dominava quella sui cosiddetti «untori»: persone che spargevano miseriosi liquidi per rinfocolare la malattia. Una fandonia che generò il terribile episodio della «colonna infame» narrato dal Manzoni. (Sopra: in una stampa di Melchiorre Gherardini, piazza San Babila a Milano durante la peste «manzoniana» del 1630).

La vicenda ebbe echi tardivi anche a Lugano, spiega Gili, con risvolti discriminatori nei confronti degli stranieri. Una grida del 1703 spiegava che la comunità luganese era stata raggiunta dalla notizia che nello stato di Milano erano state scoperte «persone che si dispergievono in molti lochi e con diaboliche, e maligni inventioni di oly, o syno unguenti, vadino imbrattando le porte, case et altri lochi con sospetto possino originare qualche morbo contaggioso».

Nella medesima grida «l’illustrissimo Nicolao Brenner» di Basilea, reggente di Lugano, dava ordine «a tutti li pitocchi, scrocchi, vagabondi e mendicanti forastieri, così maschio che femina, che nel termine di due giorni debbano absentarsi da tutta questa Comunità come pure non ardischino in avenire simil sorte di persone introdursi in questa Comunità sotto la pena alli maschi di tre anni di galera, et alle femine della frusta o staffilate secondo i casi».

E la «Spagnola»? In Ticino uccise 1199 persone

Il coronavirus inquieta, ma l’ultima volta in cui sul nostro territorio è giunta una pandemia mondiale, circa un secolo fa, c’era veramente da aver paura (sopra: nella foto d’epoca due signore con le mascherine per proteggersi dalla «grippe»). Ci riferiamo alla cosiddetta «febbre spagnola». Stando alle statistiche si stima che tra il 1918 e il 1920 sia arrivata ad infettare circa 500 milioni di persone in tutto il pianeta, provocando il decesso di 50-100 milioni di esse (dal 3 al 5 per cento della popolazione mondiale dell’epoca). In Svizzera, su una popolazione di 3.750.000 abitanti furono segnalati 750.000 casi e 24.499 decessi. Ma contando i casi non segnalati alcune stime parlano di 2.250.000 contagiati, in gran parte maschi tra i 20 e i 40 anni. La morbilità è stata assai maggiore nei centri rurali e in certe valli. I malati ufficialmente censiti furono 121.543, la maggior parte (16.568) nei sei mesi del 1918 e 4975 nel 1919. Ma in realtà la cifra dovette essere maggiore. Il numero ufficiale dei morti nel canton Ticino è di 1199 persone.

Il percorso

Pare che anche la «spagnola» sia partita dalla Cina e sia arrivata agli Stati Uniti nella primavera del 1918 per poi sbarcare, letteralmente, in Europa coi soldati che arrivavano sulla costa atlantica della Francia. Come per la peste, il principale veicolo di diffusione erano quindi gli eserciti che si spostavano. Alla fine di maggio giunse anche in Svizzera e poi in Ticino, veicolata dalle truppe di montagna accampate in Val Bedretto. Pare che si ammalarono tra il 50% e l’80% dei militari del nostro esercito, in particolare quelli dislocati lungo il confine.

Le ondate

In Ticino l’epidemia colpì soprattutto all’inizio di giugno del 1918 anche se si è poi ripresentata in tre ondate successive. La seconda, tra ottobre e novembre, fu la più letale, seguita da un ultimo passaggio tra gennaio e febbraio 1919. Nel corso delle tre ondate furono aperti lazzaretti un po’ in tutto il cantone e il Dipartimento di Igiene e Lavoro emanò direttive volte soprattutto a impedire assembramenti di massa nei luoghi pubblici. Nei momenti più critici molti locali – comprese le chiese, le scuole e le fabbriche - vennero chiusi o aperti solo lo stretto necessario. Ai contravventori furono inflitte multe molto pesanti. Nel luglio del 1918 il Corriere del Ticino pubblicò un appello a i volontari per chiedere loro di aiutare il personale sanitario. A fine anno appave anche un vaccino di dubbia utilità.

Le polemiche

L’epidemia di «spagnola» generò molti attacchi all’indirizzo dell’esercito, considerato responsabile della diffusione della malattia. Ma la «spagnola» fu anche un buon pretesto per rinfocolare i contrasti politico-ideologici. Per esempio ai bolscevichi svizzeri venne rinfacciata la colpa di aver contribuito in modo decisivo a diffondere il morbo perché avevano organizzato un raduno di massa nel primo anniversario della rivoluzione d’ottobre. La penna del polemista anticlericale Milesbo accusò invece il Governo di Bellinzona di concedere troppi privilegi alla Chiesa cattolica, perché non aveva imposto subito il divieto di assembrarsi nelle funzioni religiose.

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