Salute

Combattere l'Alzheimer? In futuro si spera di prevenirlo

Il Lecanemab, approvato dalla FDA a inizio gennaio per pazienti «precoci» positivi all’amiloide, accende le speranze di chi vede i suoi ricordi sfumare – La neuroscienziata Antonella Santuccione Chadha: «Una rivoluzione, stiamo andando a curare non più il sintomo, ma la causa»
© Shutterstock / Santuccione Chadha
Jenny Covelli
28.01.2023 18:30

Una speranza a fasi alterne. Così titolava un articolo di Paolo Galli del 2 dicembre 2022. Due settimane prima, Roche aveva reso noto il fallimento della sperimentazione sul farmaco contro l’Alzheimer Gantenerumab, il cui risultato era stato giudicato statisticamente non significativo. Una battuta d’arresto dolorosa per chi assiste impotente ai suoi ricordi che sfumano e per i suoi cari che vengono privati dei loro affetti. In quell’occasione, il dottor Leonardo Sacco, caposervizio di Neurologia all’Ospedale regionale di Lugano, si era però dichiarato fiducioso sulla possibilità di raggiungere altri risultati in tempi brevi. Aveva parlato di qualcosa di rivoluzionario: il passaggio da un farmaco sintomatico a un farmaco che agisce sulla biologia della malattia. «Non daremo solo benzina al motore, ma proveremo a riparare il motore», aveva detto. Ecco, il 6 gennaio la Food and Drug Administration (FDA) americana, attraverso procedura accelerata, ha approvato il Lecanemab per il trattamento della malattia di Alzheimer. Si tratta di un anticorpo monoclonale, sviluppato dall’azienda farmaceutica giapponese Eisai e dalla società americana Biogen, che agisce contro la proteina beta amiloide, che accumulandosi nel cervello dei malati forma le placche che hanno un ruolo chiave nella degenerazione del tessuto nervoso.

Malattia in fase iniziale

Diciamolo subito. Non si può gridare al miracolo. Nondimeno, è un salto di qualità enorme. «Non si guarisce dall’Alzheimer in questo modo. Ma è una terapia efficace affinché l’ulteriore declino cognitivo che si manifesta a seguito della malattia d’Alzheimer vada a rallentare». A parlare è la dottoressa Antonella Santuccione Chadha, neuroscienziata con un’esperienza ventennale nel campo dell’Alzheimer. La malattia consiste in depositi di proteine tossiche nel cervello. Lecanemab è un anticorpo - molto simile all’Aducanumab sviluppato in Svizzera, protagonista di una controversia negli USA nel 2021 - che «attraversa la barriera emato-encefalica, raggiunge il cervello e lo “pulisce” da queste placche tossiche». All’interno degli studi clinici viene prescritto a pazienti «precoci» per la malattia d’Alzheimer, che hanno quindi sintomi definiti come declino cognitivo lieve, nella fase «iniziale» o protonica della malattia.

Individuare la popolazione a rischio

«Non sappiamo ancora se, in un futuro speriamo auspicabile, questi medicinali potranno addirittura avere un ruolo preventivo». Addirittura? Secondo la neuroscienziata, in base alle conoscenze attuali non si può escludere che la somministrazione in una fase «ancora più precoce» possa prevenire l’Alzheimer e diventare qualcosa di più curativo. «Non si parla di panacea o risoluzione di tutto, ma quantomeno della possibilità che queste placche non si formino». Il punto è – così come a suo tempo ci aveva spiegato il dottor Sacco – che l’Alzheimer «inizia» 20 anni prima che il sintomo si manifesti. Già moltissimo tempo prima che la malattia si sviluppi, all’esterno delle cellule inizia ad accumularsi in modo anomalo l’amiloide che formerà le placche. Ebbene sì, già ben 10-20 anni prima che il sintomo – il declino cognitivo lieve, appunto – diventi palese, nel cervello cominciano a depositarsi le placche tossiche. Questo significa che c’è un abbondante fetta della popolazione che ha un deposito di placche nel cervello ma che non è sintomatica, perché il cervello è resiliente e maschera l’insorgere dei sintomi sino a un certo punto, quando si appalesano ed esplodono.

Utilizzare il Lecanemab in maniera «preventiva», quindi, significherebbe somministrarlo a tutte le persone, indistintamente? Assolutamente no, bisogna individuare qual è la popolazione a rischio e misurare il rischio individuale: «Verificare se c’è la malattia d’Alzheimer in famiglia, se c’è un inizio di deposito di proteine tossiche nel cervello misurandole nel liquido cefalorachidiano. Un aiuto potrebbe arrivare dal sangue. Recentemente, si inizia infatti a parlare di marcatori, speriamo di fare progressi anche in questa direzione con le neuroscienze».

Bisogna cambiare approccio. Creare infrastrutture che oggi non esistono e molta competenza a livello medico. Per identificare già a livello di medicina di base qual è il paziente a rischio
Antonella Santuccione Chadha, neuroscienziata

I costi sono alti

Agire prima, insomma. E fare in modo che la diagnostica avvenga in fase precoce. «Bisogna cambiare approccio. Creare infrastrutture che oggi non esistono e molta competenza a livello medico. Per identificare già a livello di medicina di base qual è il paziente a rischio, chi ha una sintomatologia imminente, e condurre un’analisi specifica. I biomarcatori aiuteranno, così come una maggiore consapevolezza della malattia e di come somministrare queste terapie».

Terapie che, diciamolo, sono davvero onerose. Il Lecanemab costerà 26.500 dollari l'anno a persona, riportano i media americani. Quando si parla di anticorpi monoclonali, anche in altre branche della medicina, i costi sono davvero alti. «Io mi auguro che questa soluzione terapeutica arrivi presto in Europa e in Svizzera - aggiunge la dottoressa -. Dove, all’Università di Zurigo, era stato scoperto Aducanumab. Che è un anticorpo umano, quindi presente normalmente nelle persone non affette da Alzheimer, mentre Lecanemab, per dirla in maniera semplice, è più sintetico».

«Accesso a tutti fondamentale»

La «ladra di memorie» - così come è stata descritta l’Alzheimer nel libro di Manuela Bonfanti che le è valso il Premio Grande Cuore - ha ufficialmente un nemico. Di chi è il merito se siamo a questo punto? «Il primo merito va ai pazienti», dice la dottoressa Santuccione Chadha. «Questi sono studi di durata lunghissima, 18 mesi mediamente. C’è grande sacrificio, dedizione, consapevolezza, e tante risorse finanziarie. Il secondo va a chi ci ha messo l’impegno e non si è arreso, nonostante le diatribe, in particolare sull’efficacia o meno del filone amiloide. E di chi continua a investire nella ricerca. Questi studi clinici sono tra i più costosi che esistano in medicina. Insomma, ci vogliono i sognatori».

Cosa ci riserva il futuro? A questo punto, sono tre gli imperativi di chi si muove nel settore. «Primo, diagnosi precoci, perché dobbiamo prendere il cervello per tempo. Se arriviamo quando sono già presenti “due chili” di placca depositata, pretendiamo il miracolo e non una terapia. Secondo, bisogna assolutamente portare il farmaco in Europa e nel resto del mondo. E, terzo, deve essere rimborsato a tutti». Un percorso non facile se si considera che negli Stati Uniti, con Aducanumab, la presa a carico è stata concessa a coloro che usufruiscono del servizio sanitario pubblico soltanto se somministrato all’interno di uno studio clinico. «Un discrimine, considerato che è possibile solo per chi vive vicino a Harvard o a Yale. Quindi una penalizzazione per l’azienda, che non può commercializzare il farmaco, e per i pazienti». La neuroscienziata è perentoria: tutti dovranno avere accesso a Lecanemab, senza discriminazioni tra servizi sanitari di eccellenza o meno. Ovviamente, si parla di pazienti che presentano le caratteristiche «giuste»: positività all’amiloide e fase iniziale della malattia.

La lotta all’Alzheimer, lo dicevamo all’inizio, è un percorso a fasi alterne. Grazie alla ricerca, arriva il momento in cui la disillusione lascia il posto alla speranza. E i fantasmi che rubano la memoria diventano all’improvviso tangibili, vulnerabili. «Io sono felice come medico, come neuroscienziata, come professionista che ha lavorato per sei anni in un reparto di psichiatria – conclude la dottoressa -. Questa è una rivoluzione all’interno della neuroscienza. Che sarà una svolta per tutta la ricerca. Stiamo andando a curare non più il sintomo, ma la causa. Una cosa che non si era mai vista prima».

La reazione

Alzheimer Svizzera ha pubblicato sul suo sito la notizia dell’approvazione del Lecanemab da parte della FDA. « Non è ancora chiaro quando le aziende presenteranno la domanda in Svizzera né quando l’Istituto svizzero per gli agenti terapeutici Swissmedic la esaminerà». Ombretta Moccetti, infermiera psichiatrica responsabile dell’Antenna e del Centro competente Alzheimer Ticino, sottolinea come sia «giusto celebrare i risultati positivi, sempre cercando di non illudere chi nella malattia vi è attualmente». Tutto l’accompagnamento di tipo non farmacologico «rimane attualmente ancora la cura della malattia».

Antonella Santuccione Chadha è anche chief medical officer di Altoida, startup svizzera/americana che ha sviluppato un’app per la misurazione della cognizione del paziente, utile nella diagnosi della fase precoce della malattia. «Sono processi lunghi e ci vogliono studi clinici su cui stiamo lavorando tra l’America, la Svizzera e l’Europa». Nel 2016, ha pure fondato l'organizzazione no-profit Women's Brain Project (WBP) che si occupa di studiare come il genere influisce sui trattamenti per la cura disturbi mentali. «L’Alzheimer è una malattia prevalentemente femminile: il 70% dei pazienti è donna, il 70-80% dei care givers sono donne. Ed essere care giver predispone a un rischio di Alzheimer. Con WBP siamo state pioniere a dire che l’Alzheimer è femmina. E dai dati preliminari si evince che queste medicine potrebbero essere più efficaci nei maschi. Bisogna capire perché e migliorare la medicina, che è una scienza che evolve con le conoscenze. Essere medico e scienziato è una magnifica occasione per le persone che vogliono capire perché e fare sempre meglio. C’è sempre spazio per migliorarsi».
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