Il commento

I rischi che corre l'economia in Europa

La decisione della Banca centrale europea di aumentare il costo del denaro per la decima volta portandolo al 4% non sorprende
Alfonso Tuor
16.09.2023 06:00

La decisione della Banca centrale europea di aumentare il costo del denaro per la decima volta portandolo al 4% non sorprende. Ancora nel mese di agosto l’inflazione nella zona euro è stata ancora del 5,3%, un livello troppo elevato rispetto all’obiettivo del 2%. La paura delle autorità monetarie di Francoforte è sempre più il pericolo che l’economia del Vecchio Continente finisca in una situazione di stagflazione, ossia di una stagnazione economica combinata con un aumento dei prezzi fuori controllo. Per questo motivo non si sono fatti spaventare dal forte rallentamento della crescita, che nel secondo trimestre di quest’anno è stata solo dello 0,1%, dai forti scricchiolii dei mercati immobiliari di alcuni Paesi, come Germania e Francia, e nemmeno dal dato molto importante di un credito bancario in diminuzione. Hanno invece guardato a due aspetti, a loro giudizio, molto più pericolosi: il prezzo di gas e soprattutto del petrolio hanno ricominciato a salire (anche grazie alla decisione di Arabia Saudita e Russia di ridurre la produzione di greggio) e all’ondata di aumenti di stipendio, in cui i sindacati cercano di recuperare almeno parte della perdita del potere d’acquisto dei lavoratori persa a causa dell’inflazione. Molti analisti hanno sentenziato che quello di giovedì scorso sarà l’ultimo ritocco dei tassi di interesse della Bce. Vi è da dubitarne. Se l’inflazione smetterà di scendere o peggio ancora riprenderà a salire, come sta succedendo negli Stati Uniti, altre strette saranno inevitabili.

L’attenzione sulle mosse della Bce non deve far dimenticare che le radici delle attuali difficoltà non sono congiunturali, ma strutturali. Il Vecchio Continente e soprattutto il suo motore economico, la Germania, stanno soffrendo a causa delle conseguenze dell’esplosione dei prezzi energetici, dovuta alla guerra in Ucraina, delle politiche disfunzionali per combattere i cambiamenti climatici, che stanno accelerando un processo di deindustrializzazione dell’economia europea. Di fronte a questa perdita di competitività, ritornano in voga le tentazioni protezionistiche, come quelle di fermare le importazioni di automobili elettriche dalla Cina, dimenticandosi che le batterie, ossia la componente più importante vengono oggi prodotte in Asia e dimenticando che l’Europa è rimasta leader solo nel settore del lusso e di pochi altri comparti economici.

Questo disastro è anche il frutto della politica delle sanzioni contro la Russia. Il risultato è stato un’impennata dei prezzi energetici, che è stata all’inizio contrastata con l’elargizione di sussidi. La strategia seguita da Bruxelles è come sempre disfunzionale. Contrariamente a quanto tutti credono l’Europa continua a finanziare Mosca. Infatti sono state interrotte solo le importazioni di gas russo via gasdotto, mentre l’Europa continua ad importare il 18% del proprio fabbisogno attraverso le importazioni di gas naturale russo liquefatto, che ovviamente costa di più. Lo stesso meccanismo funziona per il petrolio: la Russia esporta il proprio greggio in India, che lo raffina e lo riesporta in Europa. Il resto del fabbisogno viene soddisfatto da importazioni di gas americano o di GNL proveniente da alcuni Paesi arabi. Il risultato è che l’Europa acquista queste materie prime ad un prezzo nettamente superiore allo scoppio della guerra in Ucraina. Non sorprende che le industrie energivore (siderurgia, chimica, vetro, ecc.) hanno deciso di non più investire nel Vecchio Continente e di delocalizzare all’estero. Questo fenomeno colpisce in primo luogo la Germania, che nella sua politica «verde» ha chiuso gli impianti nucleari per aprire le centrali a carbone e anche a lignite, che sono le più inquinanti. Non deve sorprendere che l’economia tedesca abituata a beneficiare del gas russo a prezzi scontati sia oggi quella messa peggio. Anche Bruxelles prevede una contrazione dell’economia tedesca dello 0,4% e ciò pesa anche sull’economia del nostro Paese che è fortemente dipendente dagli scambi commerciali con la Germania.

A destare stupore l’assenza di allarme sulle condizioni dell’economia europea. Ciò è dovuto alle condizioni di un mercato del lavoro ancora in buone condizioni di salute e la convinzione che si potrà ricorrere ai finanziamenti pubblici malgrado debiti e costi di finanziamento in forte aumento. Il motivo è forse che anche l’Europa, come da tempo fanno gli Stati Uniti, conti sui soldi che può stampare la Banca centrale, che già detiene ben 1.700 miliardi di euro di debito degli Stati di Eurolandia. Anche questo atteggiamento fa pensare che lo scenario di un lungo periodo di stagflazione possa essere verosimile.