L'intervista

Kanye West e Adidas, quando il testimonial diventa un problema

Il comportamento sopra le righe e le frasi del rapper e stilista statunitense hanno danneggiato, e pure molto, l'azienda tedesca – Ne parliamo con il professor Luca Massimiliano Visconti dell'USI
Marcello Pelizzari
27.10.2022 10:13

Non ci sono più i testimonial di una volta. Seri, dedicati, inappuntabili. Lo sa bene, anzi benissimo Adidas, fresca di rottura con Kanye West (o Ye, a seconda delle preferenze) dopo le continue dichiarazioni di stampo antisemita del rapper, produttore discografico e stilista statunitense. E adesso, come la mettiamo? Quanti e quali problemi – a partire dal danno d’immagine – dovrà sopportare l’azienda tedesca? E qual è, sempre che ce ne sia una, la strategia dello stesso West, oramai abbonato a comportamenti senza controllo e a uscite da codice penale? Per capirne di più ci siamo rivolti al dottor Luca Massimiliano Visconti, decano della Facoltà di comunicazione, cultura e società all’Università della Svizzera italiana nonché professore di marketing presso l’Istituto di Marketing e Comunicazione Aziendale, sempre presso l’USI. 

Professore, che cosa ci insegna la vicenda Kanye West-Adidas? Che la scelta di un testimonial, ai giorni nostri, è diventata un rischio e una possibile fonte di guai (economici, reputazionali, d’immagine)?
«Ottima domanda. Innanzitutto, Kanye West non è stato solo un testimonial per Adidas ma, nello specifico, anche un co-designer. Anzi, se si leggono le dichiarazioni degli ultimi tempi in molti casi West ha persino rivendicato una quasi incapacità, da parte di Adidas, di proporre dei design originali per le proprie scarpe. Come se fosse lui la vera mente ispiratrice a livello di creatività dell’azienda. Kanye West, per Adidas, in realtà si è trasformato in una sorta di asset stabile. Intendo dire che l’associazione tra Ye e Adidas è stata talmente forte, talmente ripetuta nel tempo, con un tale successo commerciale che Kanye West è diventato una sorta di codice della marca. I rischi nell’utilizzare testimonial da parte delle marche sono, direi, non tanto legati al caso attuale o al contemporaneo, ma più in generale alla scelta di utilizzare un testimonial. Tipici rischi sono la mancanza di fit: Brad Pitt con Chanel numero 5 funziona oppure no? O, ancora, il fatto che il testimonial prenda il sopravvento su una marca: Beppe Grillo, quando non era in politica, pubblicizzava Yomo ed era talmente bravo che tutti pensavano a lui e non alla marca. Infine, venendo a Kanye West, la mancanza di controllo: non possiamo controllare cosa fa o dice un testimonial nel suo tempo privato. E questo, appunto, può essere un grande rischio».

Perché, allora, affidarsi a un testimonial?
«Ovviamente, ci sono benefici molto chiari nell’utilizzare testimonial come Kanye West. Dal fatto di poter trasferire gli asset simbolici che un testimonial ha su di sé e per sé direttamente sulla mia marca al fatto di rendere la marca più viva. Sappiamo che negli ultimi decenni c’è stato un grossissimo investimento da parte delle aziende per trasformare i marchi, ovvero dei segni distintivi, in realtà quasi vive. Quindi, le marche sarebbero dotate di una personalità, di un’identità, di interessi e passioni. Un testimonial, in questo senso, arricchisce».

Quanto può incidere un comportamento matto, diciamo così, di un testimonial come Kanye West a livello di vendite? Ovvero, un testimonial che si erge a paladino della libertà di espressione salvo macchiarsi di post razzisti e antisemiti si traduce automaticamente in pessime vendite o, diciamo, il prodotto alla fine si «vende da solo»?
«Distinguiamo, magari, una serie di punti. Sicuramente, certe posizioni prese dalle aziende in maniera diretta possono avere degli impatti molto negativi sulle vendite della marca. Faccio un esempio particolare: 2013, Italia, Guido Barilla durante una trasmissione radiofonica, La Zanzara se ricordo bene, dichiara che Barilla non avrebbe mai voluto avere in associazione alla marca delle famiglie omosessuali. L’uscita si tradusse in boicottaggi sistematici anche da parte di distributori a livello planetario e che richiese all’azienda di rivedere le proprie posizioni. In questo caso, però, parliamo di un manager, un proprietario o addirittura un fondatore che creano un problema alla marca. Nel caso di un testimonial, beh, non è la stessa cosa. Il testimonial è stato scelto per una collaborazione, più che altro simbolica, nel caso di West anche creativa, ma è chiaro che le idee dell’uno non sono necessariamente quelle della marca. Da un punto di vista commerciale, distanziarsi come hanno fatto Adidas, Balenciaga o, ancora, Gap è un modo per cercare di ridurre l’impatto sulle vendite. E sinceramente, forse sulle vendite il problema non è così immediato e diretto».

C’è stato un effetto sul valore azionario di Adidas. Le azioni hanno preso una sonora batosta, segno che i mercati finanziari sono più volatili delle preferenze dei consumatori

Dove colpisce di più, allora?
«C’è stato un effetto sul valore azionario di Adidas. Le azioni hanno preso una sonora batosta, segno che i mercati finanziari sono più volatili delle preferenze dei consumatori. Bisognerà vedere come, poi, nei prossimi giorni questo aspetto verrà attutito».

Significa che, in un qualche modo, in Borsa Adidas è vista come l’azienda che «fa cose» con Kanye West?
«Sì. E soprattutto la propensione al rischio può essere molto più bassa, c’è incertezza in particolare su come i consumatori potranno reagire. E c’è incertezza su come Adidas potrà cercare di recuperare lo strappo. Non sono un esperto di finanza, ma posso immaginare che di fronte a simili incertezze ci sia un’immediata apprensione e quindi anche una caduta del valore delle azioni».

Adidas, rispetto ad altre aziende cui West ha prestato volto e talento, fa storia a sé. Giusto?
«Va detto che Adidas, sul tema dell’antisemitismo, è molto più sensibile. È noto, infatti, che i due fondatori, Adi e Rudolf Dassler, a suo tempo aderirono al Partito nazista. Chiaramente, questa parte della storia di Adidas riemerge in situazioni del genere. Oltre al danno reputazionale, però, c’è anche il rischio di un costo commerciale diretto. I dati comunicati sono inquietanti: il fatturato di Adidas, oggi, dipende per circa il 7% dai prodotti fatti in collaborazione con Kanye West. Parliamo di 250 milioni di euro. Adidas ha subito chiarito che prendere le distanze da Kanye West non implica necessariamente non produrre più i prodotti disegnati con lo stesso West, di cui Adidas rivendica la sola proprietà legale».

È un tema molto delicato, perché si lega al prodotto creativo. Ammesso e non concesso che Kanye West sia un artista destinato a rimanere nella storia, potrebbe anche essere dissociato dalle sue opinioni e posizioni

Assomiglia molto alla posizione, interlocutoria, di Spotify: il colosso dello streaming ha condannato le parole di West ma allo stesso tempo si è guardato bene dal rimuovere la sua musica dalla piattaforma.
«È un tema molto delicato, perché si lega al prodotto creativo. Ammesso e non concesso che Kanye West sia un artista destinato a rimanere nella storia, potrebbe anche essere dissociato dalle sue opinioni e posizioni. Come è stato in passato per altri. Posso capire la posizione di Spotify, che pure presenta dei rischi». 

Se Kanye West, inteso come personaggio, fosse un prodotto, dove e come avrebbe sbagliato a livello di campagna di marketing? Pensiamo alle provocazioni recenti con White Lives Matter ma, appunto, anche ai vari ban ricevuti sui social. Esiste davvero questa sua ricerca di «bianchitudine», in contrasto con le rivendicazioni degli afroamericani negli Stati Uniti?
«Non conoscendo così dettagliatamente il personaggio, mi riesce difficile decodificare nel dettaglio la vicenda umana di Kanye West. Da un punto di vista del marketing, potrei dire che il fatto di prendere posizioni estreme non è necessariamente un errore. Di base, quello che insegniamo sulle marche è che non c’è marca senza una discriminazione. Una marca si costruisce prendendo posizioni forti. Possiamo immaginare che, ahinoi, le posizioni antisemite o estreme prese da West abbiano un proprio pubblico. Per queste persone, tutto sommato, la marca Kanye West potrebbe funzionare ancora. E forse pure meglio. La cosa più interessante è proprio questa sorta di investimento nella bianchitudine. Che non è riservata a chi ha la pelle bianca, come ci spiegano alcuni sociologi. È un tratto che prescinde dall’etnia d’origine. Whiteness, semplicemente, significa accedere ai network del potere. Circoli dominati da ceppi caucasici. Quando qualcuno come Kanye West entra nel circolo dei ricchi, delle persone di successo ammirate e rispettate, può esserci un’adesione più o meno consapevole a questi meccanismi di tutela del privilegio, meccanismi tipici dei bianchi».

La maglietta sfoggiata a Parigi, White Lives Matter, può rientrare nella semplice provocazione?
«La maglietta in sé, chiaramente, è una provocazione. E il mondo della moda è costruito sulla continua provocazione, che permette quando non è sterile e fine a se stessa di vedere con un po’ più di prospettiva alcune norme della nostra società. Certo, Kanye West avrebbe potuto argomentare diversamente. Il modo scelto, invece, ha portato la provocazione, che magari poteva anche funzionare, verso un cortocircuito molto, molto negativo».

Queste boutade, alcune anche di pessimo gusto o reiterate, di fatto catturano attenzione. Catturare l’attenzione, però, non è sufficiente perché poi c’è anche il giudizio che le persone formulano su di te

Detto questo, alcuni personaggi sembrano adottare proprio questa strategia di provocazione estrema: oltre a West citiamo Elon Musk e Donald Trump. Ribadiamo: perché?
«Queste boutade, alcune anche di pessimo gusto o reiterate, di fatto catturano attenzione. Catturare l’attenzione, però, non è sufficiente perché poi c’è anche il giudizio che le persone formulano su di te. C’è poi il famoso cliché del genio e sregolatezza: chi vende se stesso e la propria azienda come propulsore di innovazione o creatività, a volte, pensa sia utile dimostrare la propria presunta o reale creatività attraverso posizioni estreme e quasi paradossali. C’è, infine, anche un problema di delirio di onnipotenza e delirio narcisistico. Delirio che non mi sentirei di escludere in una persona come Kanye West, secondo cui Adidas, vista l’importanza del personaggio per il suo business, non avrebbe potuto fare niente contro le sue dichiarazioni antisemite. Il contesto dei social media, che non attacco, ha costruito quella che alcuni sociologi chiamano cultura del selfie, che non fa che stimolare e titillare l’ego personale».

Quali reazioni innesca un comportamento del genere in un’azienda come Adidas? Al di là di come andrà a finire la vicenda, quali strumenti ha a disposizione l’azienda per allontanarsi dal testimonial non solo fisicamente – come intende fare Adidas – ma anche nell’immaginario collettivo? È sufficiente interrompere la collaborazione per distanziarsi dal testimonial o, in un certo senso, bisogna provvedere anche a rieducare i propri clienti?
«La prima cosa da fare è prendere le distanze, scusarsi e fare di fatto quello che Adidas e Balenciaga hanno fatto. Può non essere sufficiente, soprattutto quando le aziende, ed è il caso di Adidas, hanno delle collaborazioni particolarmente estese con il testimonial o interessi commerciali particolarmente forti e, oltretutto, un passato come quello dell’azienda tedesca. Siamo nel campo del crisis management. Sarà necessario per Adidas andare oltre il distanziamento. Le cose più probabili sono operazioni di comunicazione esterna o azioni di social marketing, con Adidas che potrebbe investire in cause, associazioni e comunità che rappresentano le vittime della vicenda. È quanto fece Barilla a suo tempo, creando progetti con la comunità LGBTQ». 

Mettiamoci di nuovo nei panni di Kanye West: questo atteggiamento poco ortodosso, eufemismo, gli permetterà comunque di strappare nuovi contratti con nuove aziende o, al contrario, siamo nel campo del suicidio commerciale?
«Difficile dare una risposta, non ho mai avuto il dono della divinazione. Posso dire che il rischio commerciale per se stesso, in una logica che non è quella dell’autoproduzione ma della collaborazione, è altissimo. Kanye West si è giocato la possibilità di stringere nuovi accordi per molto tempo, forse addirittura per sempre. Precedenti, in questo senso, ce ne sono. Anche famosi. Gosha Rubchinskiy, nel 2018, venne accusato di azioni vicine alla pedo-pornografia e quindi fu bandito dal sistema moda. John Galliano, nel 2010, si pronunciò contro la comunità ebraica e fu licenziato in tronco da Dior, di cui era direttore creativo per la donna. Gosha mi risulta che sia sparito, Galliano lavora nell’ombra. Entrambe le carriere si sono ridimensionate. Non sottovalutiamo il fatto, venendo a West, che alle spalle c’è una forte comunità di fan. Sarà interessante osservare come, da una parte, reagirà questa comunità e, dall’altra, come lui reagirà alla situazione. Credo sia estremamente importante che la società e il mercato prendano le distanze da comportamenti violenti, xenofobi o lesivi dei diritti fondamentali dell’uomo. Ma è altresì importante che società e mercato siano in grado di ammettere che le persone possono sbagliare e, di riflesso, cambiare».