La storia

«Ero un bersaglio, sapevo che un giorno i talebani sarebbero venuti a cercarmi»

Malalai ha dedicato tutta la vita alla difesa dei diritti delle donne, anche per due ONG svizzere – Dopo un iter di un anno e mezzo, finalmente la SEM le ha concesso un visto umanitario
© KEYSTONE (AP Photo/Ebrahim Noroozi)
Jenny Covelli
26.10.2023 06:00

«L’Afghanistan è la mia casa. Ma in questo momento è impensabile sognare di potervi tornare, un giorno. Finché i talebani saranno al potere, chi lotta per i diritti sarà sempre in pericolo». A parlare è Malalai*, 47 anni. La sua vita è cambiata il 15 agosto 2021, quando i talebani hanno ripreso il controllo di Kabul dopo vent’anni di presenza occidentale. Mentre il mondo fissava le immagini di persone in fuga che si aggrappano agli aerei in partenza e il neonato affidato ai soldati americani davanti al perimetro di cemento all’aeroporto, la donna provava paura, quella vera. Era solo l’inizio di una crisi umanitaria e di diritti.

Malalai è originaria della provincia di Kapisa. Non è facile nascere donna in un Paese sbagliato, «a woman in a wrong geography». Il padre era medico e ha sostenuto la sua scolarizzazione fino alle superiori. Quando ha superato l’esame di ammissione all’università di Kabul, però, gli uomini della famiglia si sono opposti. «Ho ignorato tutte le parole sgradevoli che mi rivolgevano fratelli, zii, parenti. Sono stata la prima ragazza di casa a laurearsi e ho aperto la strada ad altre dopo di me».

La donna ha dedicato tutta la carriera professionale alla promozione e alla difesa dei diritti delle bambine e delle donne in Afghanistan, assumendo anche funzioni di rappresentanza. Si è occupata della protezione di donne e bambini vittime di abusi, ridotti in schiavitù o vittime di tratta per Hagar International con sede a Zurigo. Ha insegnato inglese e informatica alle ragazze per la Womanity Foundation di Ginevra. Compiti che l’hanno resa riconoscibile e per i quali è diventata un bersaglio facilmente individuabile, dopo la presa del potere da parte dei talebani. La macchina di repressione del regime ha fatto irruzione negli uffici delle organizzazioni per i diritti umani ed effettuato confische di documenti alle ONG, individuando anche il suo nome.

Il mandato d’arresto

«I talebani hanno reso la vita un inferno alla maggior parte della popolazione», racconta la donna. «Hanno tolto alle ragazze il diritto all’istruzione, alle donne la possibilità di lavorare, addirittura hanno impedito loro di viaggiare e di fare la spesa se non in compagnia di un maschio della famiglia. Hanno eliminato libertà che sono permesse e legittime nell’ambito dell’Islam». Quando i talebani hanno conquistato Kabul, per Malalai è scattato l’allarme: «Sapevo che un giorno sarebbero venuti a cercarmi». Già quando lavorava per Hagar la donna aveva ricevuto lettere di minacce ed era stata pedinata da sconosciuti.

Il 25 agosto 2021, insieme al marito e ai figli di 19 e 22 anni, ha detto addio alla sua casa e, successivamente, ha saputo che solo qualche ora dopo un gruppo di talebani vi aveva fatto irruzione. Lo stesso è avvenuto in almeno altre due occasioni, il 29 agosto e il 13 settembre. Qualche giorno dopo il figlio e il genero di Malalai sono stati aggrediti mentre andavano dal parrucchiere.

E c’è di più. I talebani hanno emesso un mandato di cattura e di arresto: «Hanno ordinato ai soldati nelle province di Kabul e Kapisa di arrestarci e consegnarci all’intelligence. Abbiamo vissuto per otto mesi in posti nascosti», continuando a cambiare rifugio.

Per la SEM non sono in pericolo

Era l’ottobre del 2021 quando la famiglia di Malalai ha provato a entrare in Pakistan per la prima volta. A Islamabad ha sede la Rappresentanza svizzera per il deposito della domanda di visto umanitario. La fuga riesce solo cinque mesi dopo, una volta raccolto il denaro sufficiente per un autista di fiducia. È marzo del 2022.

Il 5 aprile Malalai ottiene audizione a Islamabad, dove spiega i motivi della richiesta. Una settimana dopo la domanda viene rigettata: «La vita e l’integrità fisica dell’intera famiglia non sarebbe direttamente, seriamente e concretamente minacciata in Afghanistan e in Pakistan. Non si ravvisa una situazione di emergenza tale da rendere assolutamente necessario l’intervento delle Autorità svizzere». Il 25 aprile viene presentata opposizione alla Segreteria di Stato della migrazione (SEM), che conferma il rifiuto all’ingresso in Svizzera: non si fornisce rilevanza al mandato di cattura e arresto dei talebani poiché «è nota la possibilità di falsificare tali documenti». La SEM contesta inoltre a Malalai di essere rientrata in Afghanistan per un breve periodo per far visita alla figlia più grande, che ha subito un aborto. Il 27 giugno 2022, l’avvocato Paolo Bernasconi presenta ricorso al Tribunale amministrativo federale contestandone la «carente motivazione, nonché l’inesatto e incompleto accertamento dei fatti giuridicamente rilevanti»: «Malalai è un bersaglio da eliminare» per i talebani. Una vera e propria spina nel fianco per il regime. Ed è in pericolo anche in Pakistan: nel settembre 2022 agenti della polizia pakistana hanno suonato alla porta dell’abitazione familiare e hanno fotocopiato i documenti di tutti. Il governo dei talebani è in discussione con quello pakistano per rimpatriare gli afghani presunti «nemici del popolo» o «eretici», come pure chi chiede asilo in Stati terzi.

Al Tribunale amministrativo federale l’avvocato Bernasconi scrive per altre sei volte, fornendo informazioni e documentazione supplementare che dimostrano la situazione precaria e di pericolo in cui Malalai e i suoi cari si trovano.

Finalmente al sicuro

Quindi, la svolta: il tribunale di San Gallo invita la SEM a pronunciarsi nuovamente sul caso e, il 3 ottobre 2023, la Rappresentanza svizzera a Islamabad viene autorizzata a concedere alla famiglia un visto per motivi umanitari. «Avevo perso le speranze, ma grazie agli infiniti sforzi dell’avvocato e del suo team, della Fondazione Azione Posti Liberi, il 13 ottobre siamo arrivati a Kloten. Quando mi ha scritto “you are my sister” in una e-mail, ho capito che avrebbe fatto l’impossibile», spiega Malalai. «Ora siamo finalmente al sicuro. Inizia una nuova vita. Ho già pianificato di imparare la lingua, far proseguire gli studi ai miei figli e trovare un lavoro».

*nome noto alla redazione

Il visto umanitario

Nel 2021, sono state presentate 1.569 domande di visto umanitario, principalmente da cittadini afghani e siriani. Ne sono stati concessi 94 (6%). Nel 2022 le richieste (arrivate anche dall’Iran) sono più che raddoppiate e la percentuale di assegnazione è scesa al 3.8%. Quest’anno sono già 836 le domande depositate; 34 persone (4%) hanno ricevuto il visto umanitario (dato al 31.08.2023). In Svizzera è possibile rilasciare un visto umanitario (Ordinanza OEV) se la vita o l’integrità fisica di una persona è direttamente, seriamente e concretamente minacciata nel Paese d’origine o di provenienza. Se il richiedente si trova già in uno Stato terzo, di norma non è più considerato minacciato. L’esistenza di un legame stretto e attuale con la Svizzera è di particolare importanza. Il visto consente un soggiorno fino a 90 giorni, dopo l'ingresso in Svizzera è necessario presentare domanda di asilo, spiega la SEM. «Siamo l'unico Stato in Europa ad avere una procedura formalizzata per il visto umanitario, con una via d'appello. È destinato a particolari situazioni di emergenza che rendono indispensabile l’intervento delle autorità; ed è quindi un’ultima ratio». Malalai, il marito e due figli sono tra queste eccezioni. Finalmente al sicuro. «Sono molto riconoscente. Non vedo l’ora di ricostruire qui la mia e la nostra vita, passo dopo passo».
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