Il ticinese di Londra e l'effetto Horizon: «La ricerca non si è mai fermata, ma quanta fatica»

Sì, il Regno Unito è rientrato nel programma dell’Unione Europea per la ricerca e l’innovazione. Horizon, già. E Matteo Gallidabino, dottore in scienze forensi e docente presso il prestigioso King’s College di Londra, sorride quando gli chiediamo un commento al riguardo. Ticinese, vive e lavora oltremanica da una vita oramai. «Arrivai qui prima della Brexit» dice il ricercatore. «Ho vissuto l’epoca dell’allontanamento dall’UE e, ora, sto vivendo il riavvicinamento a Bruxelles».
Dottor
Gallidabino, banalmente: quanto è cambiato il suo lavoro, negli anni, complice
questo tira e molla con l’Europa?
«Prima della Brexit, evidentemente, la collaborazione con l’Europa era molto
più profonda. Detto ciò, in termini accademici il Regno Unito è sempre stato
uno degli attori principali in termini di ricerca. Quando l’uscita dall’UE è
diventata realtà, per noi è stato un po’ uno shock. Ma proprio in virtù dello
status di cui ha sempre goduto la ricerca britannica si è assistito, subito, a
uno sforzo interno notevole. Come a voler compensare l’esclusione dai
finanziamenti europei. Uno sforzo teso proprio a garantire la continuità a
livello di fondi. La ricerca, insomma, non si è fermata».
Tutto bene,
dunque?
«Sì e no. Il problema è che, mancando i finanziamenti dell’UE, gli sforzi
interni si sono concentrati su settori cosiddetti mainstream, complice se
vogliamo anche la pandemia che, secondo logica, ha fatto sì che gran parte dei
fondi venisse dirottata sulla ricerca medica. Il mio campo, quello delle
scienze forensi, ha sofferto e non poco questo nuovo equilibrio».
Diceva che la
ricerca non si è fermata. In che modo, al di là di Horizon, il Regno Unito è
rimasto comunque a stretto contatto con l’Europa?
«Il Regno Unito non è mai stato escluso nel vero senso della parola.
Semplicemente, non potevamo più essere coordinatori di una ricerca o
co-coordinatori. Potevamo solo partecipare come associati. A livello pratico,
potevamo metterci il cervello ma non ricevevamo alcun finanziamento da parte
del programma Horizon».


E la ricerca
è anche business, giusto?
«Servono soldi, certo. Per il materiale, gli strumenti, per pagare lo staff
anche. Se non puoi ricevere fondi, sei molto azzoppato. Potevamo, questo sì, collaborare
intellettualmente a un progetto di respiro europeo. Avere i nostri nomi su
articoli scientifici. Ma, ripeto, il tutto era limitante. Tant’è che ci sono
stati diversi casi, durante l’esclusione, di ricercatori che hanno venduto la
propria idea di ricerca a istituti europei che potevano avere accesso ai
finanziamenti. Quantomeno, non siamo rimasti isolati. Il flusso di scambio non
si è mai interrotto. Quante volte, con i colleghi nel continente, mi è capitato
di dire: d’accordo, ma i soldi? Il collo di bottiglia, per noi, fuori da
Horizon è sempre e solo stato questo».
Senza
scomodare la politica e il riavvicinamento del Regno Unito all’UE, e ribadendo
che il rientro in Horizon faceva parte dell’Accordo di commercio e
cooperazione, entrato in vigore nel 2021 e autentica pietra angolare delle
nuove relazioni fra Londra e Bruxelles, quanta pressione ha esercitato il mondo
accademico britannico per tornare nel programma?
«Molta, moltissima. Dopo la Brexit il problema era emerso con forza. E Londra,
subito, ha fatto pressioni. Il Regno Unito, dicevo, è molto forte. Ha una lunga
storia sul fronte della ricerca. Con molte possibilità interne di accesso ai
fondi, non solo governative ma anche private. Ma c’era un forte timore,
altresì, che le collaborazioni venissero interrotte tout court».
Come vede,
ora, la situazione elvetica? Ci sono più analogie o differenze con quanto
vissuto dal Regno Unito fino a poco tempo fa?
«È una situazione
delicata. La differenza, beh, è sulla grandezza della scena accademica. Noi
abbiamo oltre centocinquanta Università. È un settore dinamico. E, come dicevo,
le possibilità di ottenere fondi sono molteplici. La Svizzera ha meno
Università, una quindicina. Sono ottimi istituti, dal ranking importante. Ma le
chance di ottenere finanziamenti sono più limitate. Le strade sono poche. Se
non puoi accedere ai finanziamenti europei, alla lunga portare avanti la
ricerca diventa un esercizio complicato. A soffrirne di più saranno le branche
più di nicchia. Come il mio campo».
Un orizzonte
nero…
«Però c’è un lato positivo: per quanto piccola, la Svizzera è apprezzata per la
sua ricerca. C’è molta fiducia a livello internazionale nella cosiddetta
ricerca swiss made. Non penso che il Paese resterà isolato. Semmai,
bisognerà capire come garantire i giusti finanziamenti».