L'intervista

Il ticinese di Londra e l'effetto Horizon: «La ricerca non si è mai fermata, ma quanta fatica»

Dottore in scienze forensi e docente presso il prestigioso King's College, Matteo Gallidabino ricorda la parentesi lontano dai finanziamenti europei: «Potevamo solo metterci il cervello, senza però ricevere fondi»
Marcello Pelizzari
02.10.2023 06:00

Sì, il Regno Unito è rientrato nel programma dell’Unione Europea per la ricerca e l’innovazione. Horizon, già. E Matteo Gallidabino, dottore in scienze forensi e docente presso il prestigioso King’s College di Londra, sorride quando gli chiediamo un commento al riguardo. Ticinese, vive e lavora oltremanica da una vita oramai. «Arrivai qui prima della Brexit» dice il ricercatore. «Ho vissuto l’epoca dell’allontanamento dall’UE e, ora, sto vivendo il riavvicinamento a Bruxelles».

Dottor Gallidabino, banalmente: quanto è cambiato il suo lavoro, negli anni, complice questo tira e molla con l’Europa?
«Prima della Brexit, evidentemente, la collaborazione con l’Europa era molto più profonda. Detto ciò, in termini accademici il Regno Unito è sempre stato uno degli attori principali in termini di ricerca. Quando l’uscita dall’UE è diventata realtà, per noi è stato un po’ uno shock. Ma proprio in virtù dello status di cui ha sempre goduto la ricerca britannica si è assistito, subito, a uno sforzo interno notevole. Come a voler compensare l’esclusione dai finanziamenti europei. Uno sforzo teso proprio a garantire la continuità a livello di fondi. La ricerca, insomma, non si è fermata».

Tutto bene, dunque?
«Sì e no. Il problema è che, mancando i finanziamenti dell’UE, gli sforzi interni si sono concentrati su settori cosiddetti mainstream, complice se vogliamo anche la pandemia che, secondo logica, ha fatto sì che gran parte dei fondi venisse dirottata sulla ricerca medica. Il mio campo, quello delle scienze forensi, ha sofferto e non poco questo nuovo equilibrio».

Diceva che la ricerca non si è fermata. In che modo, al di là di Horizon, il Regno Unito è rimasto comunque a stretto contatto con l’Europa?
«Il Regno Unito non è mai stato escluso nel vero senso della parola. Semplicemente, non potevamo più essere coordinatori di una ricerca o co-coordinatori. Potevamo solo partecipare come associati. A livello pratico, potevamo metterci il cervello ma non ricevevamo alcun finanziamento da parte del programma Horizon».

Servono soldi, certo. Per il materiale, gli strumenti, per pagare lo staff anche. Se non puoi ricevere fondi, sei molto azzoppato

E la ricerca è anche business, giusto?
«Servono soldi, certo. Per il materiale, gli strumenti, per pagare lo staff anche. Se non puoi ricevere fondi, sei molto azzoppato. Potevamo, questo sì, collaborare intellettualmente a un progetto di respiro europeo. Avere i nostri nomi su articoli scientifici. Ma, ripeto, il tutto era limitante. Tant’è che ci sono stati diversi casi, durante l’esclusione, di ricercatori che hanno venduto la propria idea di ricerca a istituti europei che potevano avere accesso ai finanziamenti. Quantomeno, non siamo rimasti isolati. Il flusso di scambio non si è mai interrotto. Quante volte, con i colleghi nel continente, mi è capitato di dire: d’accordo, ma i soldi? Il collo di bottiglia, per noi, fuori da Horizon è sempre e solo stato questo».

Senza scomodare la politica e il riavvicinamento del Regno Unito all’UE, e ribadendo che il rientro in Horizon faceva parte dell’Accordo di commercio e cooperazione, entrato in vigore nel 2021 e autentica pietra angolare delle nuove relazioni fra Londra e Bruxelles, quanta pressione ha esercitato il mondo accademico britannico per tornare nel programma?
«Molta, moltissima. Dopo la Brexit il problema era emerso con forza. E Londra, subito, ha fatto pressioni. Il Regno Unito, dicevo, è molto forte. Ha una lunga storia sul fronte della ricerca. Con molte possibilità interne di accesso ai fondi, non solo governative ma anche private. Ma c’era un forte timore, altresì, che le collaborazioni venissero interrotte tout court».

Come vede, ora, la situazione elvetica? Ci sono più analogie o differenze con quanto vissuto dal Regno Unito fino a poco tempo fa?
«È una situazione delicata. La differenza, beh, è sulla grandezza della scena accademica. Noi abbiamo oltre centocinquanta Università. È un settore dinamico. E, come dicevo, le possibilità di ottenere fondi sono molteplici. La Svizzera ha meno Università, una quindicina. Sono ottimi istituti, dal ranking importante. Ma le chance di ottenere finanziamenti sono più limitate. Le strade sono poche. Se non puoi accedere ai finanziamenti europei, alla lunga portare avanti la ricerca diventa un esercizio complicato. A soffrirne di più saranno le branche più di nicchia. Come il mio campo».

Un orizzonte nero…
«Però c’è un lato positivo: per quanto piccola, la Svizzera è apprezzata per la sua ricerca. C’è molta fiducia a livello internazionale nella cosiddetta ricerca swiss made. Non penso che il Paese resterà isolato. Semmai, bisognerà capire come garantire i giusti finanziamenti».

Correlati