Stati Uniti

Biden e Trump verso un rematch? Ecco che cosa succederà nei prossimi mesi

Ieri il leader 80.enne ha annunciato ufficialmente la propria candidatura: a novembre 2024 potremmo assistere a un testa a testa che saprà di déjà-vu — Spieghiamo le differenti e intricate fasi che porteranno all'elezione di un nuovo (o vecchio) presidente
Immagine generata con Midjourney
Giacomo Butti
26.04.2023 17:00

Ora è ufficiale: sarà rematch, come direbbero oltreoceano. O quasi. Biden e Trump, già sfidatisi nel 2020, parteciperanno entrambi alle presidenziali 2024: dovessero ottenere le nomine del proprio partito, porteranno in scena — a novembre 2024 — un nuovo testa a testa che saprà di déjà-vu. Ieri il presidente ha sciolto ogni dubbio: punterà a rimanere alla Casa Bianca altri quattro anni. «Portiamo a termine il lavoro». L'annuncio, manco a dirlo, ha causato la rabbiosa reazione del Partito repubblicano: «Biden è sconnesso dalla realtà. Gli americani stanno contando i giorni che ci separano dal momento in cui verrà mandato a casa». Manca un anno e mezzo, e di colpi di scena ne possono ancora arrivare (ricordate Ron DeSantis?), ma l'eventuale battaglia fra i due si preannuncia accesa e senza esclusione di colpi.

A questo punto non resta che vedere quali fasi della campagna aspettano gli statunitensi: spieghiamo, brevemente, il funzionamento delle presidenziali.

Fra candidati, primarie e caucus

Le elezioni presidenziali statunitensi seguono un processo relativamente complesso, reso particolarmente intricato dai differenti regolamenti applicati di Stato in Stato. Cercheremo, dunque, di riassumere la situazione. Ogni fase dell'elezione fa solitamente riferimento a un periodo preciso dell'anno (vedi tabella sopra). Attualmente — primavera 2023 —, ci troviamo nella prima fase del ciclo, quella in cui i candidati ufficializzano la loro intenzione di correre per la Casa Bianca. Attualmente, i nomi in lista per il Partito democratico sono 3: Robert F. Kennedy Jr., Marianne Williamson e, ovviamente, Joe Biden. Più numerosi i candidati già ufficializzati fra i ranghi del Partito repubblicano: Larry Elder, Nikki Haley, Asa Hutchinson, Vivek Ramaswamy e Donald Trump. A questi nomi potrebbero aggiungersene altri: c'è ancora tempo prima dell'inizio di dibattiti su primarie e caucus, che avranno luogo fra l'estate di quest'anno e la primavera 2024. Tra i nomi più chiacchierati, come già evidenziato, quello di Ron DeSantis, attuale governatore della Florida che potrebbe contendere a Trump la nomina del Partito dell'elefantino.

Ma cosa sono primarie e caucus? Si tratta, sostanzialmente, di due metodi differenti (a volte complementari) per tenere un voto che, in ogni Stato, porterà i partiti a esprimersi sul proprio candidato preferito, quello che sarà nominato ufficialmente per la corsa alla presidenza. Primarie e caucus si svolgono a scaglioni sull'arco di mesi (da gennaio a giugno 2024), con la conseguenza che i risultati rivelati dai primi Stati a cimentarsi in questo voto (solitamente Iowa e New Hampshire) hanno la possibilità di influenzare i restanti. Le primarie possono essere chiuse (i membri registrati del partito possono votare per un candidato della propria lista) o aperte (a tutti gli elettori è consentito scegliere a quale primarie del partito desiderano votare senza dichiarare alcuna affiliazione partitica). Di più: le primarie possono essere indirette o dirette. Nel primo caso, gli elettori scelgono dei delegati che avranno l'incarico, più avanti (nella convention di nomina, vedi tabella), di nominare il candidato del proprio partito. Nel secondo caso, meno comune, i cittadini partecipano a un'elezione preliminare con la quale nominare direttamente il proprio candidato.

Il caucus, invece, è un sistema di incontri locali in cui gli elettori (spesso solo quelli registrati a un partito) hanno la possibilità di sostenere apertamente i differenti candidati tramite discorsi. Il voto è sostanzialmente pubblico: i presenti si esprimono infatti tramite alzata di mano o dividendosi in gruppi in base alla preferenza. Negli ultimi anni, gli Stati in cui si tengono i caucus è diminuito, in parte su incoraggiamento del Comitato nazionale democratico a optare per delle primarie. Oltre all'Iowa, troviamo Nevada, Samoa americane, Nord Dakota, Wyoming, Guam e Isole Vergini americane.

Nel giro di un anno, fra l'estate 2023 e giugno 2024, ogni contea e distretto degli Stati Uniti vedrà lo svolgersi di dibattiti introduttivi e comizi dei numerosi aspiranti alla Casa Bianca, prima di arrivare al voto di primarie o caucus che porterà alla nomina di un singolo candidato per partito. Le regole, dicevamo, cambiano di Stato in Stato e alcuni applicano forme miste di voto. La sostanza, però, è una: al termine di questo lungo processo scaglionato, i partiti si presenteranno, fra luglio e settembre 2024, di fronte alla nazione in una serie di convention di nomina tramite le quali verrà rivelata la scelta definitiva, il nome della donna o dell'uomo che correrà per la Casa Bianca.

Il dibattito fra Biden e Trump nel corso delle presidenziali 2020. © AP Photo/Morry Gash (Keystone)
Il dibattito fra Biden e Trump nel corso delle presidenziali 2020. © AP Photo/Morry Gash (Keystone)

L'Election Day

È a settembre 2024, a un paio di mesi dall'Election Day, che le presidenziali entreranno nel vivo. La campagna, già avviata un anno prima con le primarie, si accenderà davvero, con i candidati selezionati che parteciperanno a frequenti comizi, dibattiti e interviste ai media, con largo uso di social media e in pubblicità televisive e online. Ogni risorsa verrà messa in campo per ottenere il voto dei cittadini nel giorno tanto atteso, il 5 novembre 2024, l'Election Day. Qui, gli statunitensi saranno chiamati a votare nuovamente, in maniera indiretta.

Il voto dell'Election Day, infatti, non determinerà direttamente il vincitore delle presidenziali, ma servirà a selezionare i cosiddetti "grandi elettori", un gruppo di rappresentanti che avrà l'incarico di esprimere la preferenza del proprio Stato una volta riuniti nel Collegio elettorale nel mese di dicembre 2024. Nella maggior parte dei casi, il voto funziona con il sistema detto "winner-take-all": il candidato alla Casa Bianca con più voti si aggiudica tutti i grandi elettori assegnati a quello Stato. Solo Maine e Nebraska ricorrono a una formula mista che permette di assegnare grandi elettori a più candidati. I grandi elettori sono 538, numero pari alla somma dei cento senatori, dei 435 deputati e dei tre rappresentanti del Distretto di Columbia, sede della capitale. Ciò significa che serve il voto di 270 di essi (maggioranza assoluta) per diventare presidente degli Stati Uniti. Benché, a livello istituzionale, l'espressione della propria preferenza da parte dei grandi elettori sia un passaggio fondamentale per l'elezione del presidente, va detto che i giochi sono sostanzialmente già decisi nell'Election Day. Nel mese di dicembre, i grandi elettori sarebbero liberi, teoricamente, di votare contro il candidato sostenuto sin lì, "tradendo" la volontà dei cittadini che li hanno eletti per esprimere una certa preferenza. Ma si tratta di un'eventualità remota, punita penalmente secondo le leggi di alcuni Stati. Per riassumere: se a novembre — dopo aver contato i voti della popolazione — un candidato dovesse possedere una maggioranza assoluta di grandi elettori a lui fedeli, la sua elezione al Congresso elettorale sarà praticamente scontata.

Il paradosso

L'applicazione di questo regolamento porta, in casi rari, al verificarsi di un paradosso: la sconfitta di un candidato che, a livello di schede, ha ottenuto più voti di tutti gli avversari. Il numero di grandi elettori assegnato a ogni Stato non è perfettamente proporzionale alla popolazione che lo abita (i 435 corrispondenti ai deputati al Congresso lo sono, gli altri 100 —equivalenti al numero di due senatori per Stato — no). Ma a distorcere maggiormente i risultati è spesso il fatto che la modalità "winner-take-all" porta ad assegnare tutti i grandi elettori di uno Stato a un singolo candidato, questo anche se, ad esempio, alle urne lo scarto nelle preferenze è stato solo di una manciata di voti. Poco importa, ad esempio, se i Democratici hanno ricevuto il 48% dei voti in Wyoming. Ai Repubblicani basta ottenere il 48,1% delle preferenze (un piccolo numero di esse andrà a partiti minori come il Green Party, Libertarian Party o indipendenti) per poter contare sul 100% dei grandi elettori di quello Stato. Questi due fenomeni, sommati, possono portare a una situazione del tutto particolare: un candidato può ottenere abbastanza grandi elettori da essere eletto presidente pur avendo ricevuto meno voti dell'avversario diretto.

Una simile situazione si è presentata cinque volte nella storia degli Stati Uniti: 1824, 1876, 1888, 2000 e 2016. Nel 2000, il candidato democratico Al Gore, già vicepresidente e convinto ambientalista, fu sconfitto dal repubblicano George W. Bush pur avendo ottenuto circa 500 mila voti in più di lui. Bush venne eletto grazie al sostegno di 271 grandi elettori (la maggioranza assoluta +1).

Lo stesso si verificò nel 2016, quando Trump trionfò su Hillary Clinton. Allora, il tycoon andò ben oltre i 270 grandi elettori necessari per battere l'avversaria (304), ma i voti a suo favore erano ben 3 milioni in meno. Un risultato, per certi versi, clamoroso e che aprì forti discussioni sulla necessità di una riforma nel metodo di elezione. In situazioni simili, è il peso dei cosiddetti "swing states" — Stati dove il risultato dello scontro fra Repubblicani e Democratici non è scontato — a fare la differenza. Nel 2016, ad esempio, Trump ottenne tutti i grandi elettori di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin pur avendo battuto Clinton con uno scarto minore all'1% (rispettivamente: 0,23%, 0,72%, 0,77%).

Il dopo

Ciò che viene dopo l'Election Day è, sostanzialmente, contorno. Come già sottolineato, il voto del Collegio elettorale — espresso nel mese di dicembre — è solitamente una formalità che non cambia quanto già determinato nelle ore immediatamente seguenti la chiusura delle urne. A poche settimane dal voto dei grandi elettori (16 dicembre 2024), le preferenze saranno contate di fronte a una sessione congiunta del Congresso (Senato e Camera dei Rappresentanti), momento che si terrà il 6 gennaio 2025. Sarà allora che verrà ufficializzato il risultato delle elezioni, in attesa del 20 gennaio, Inauguration Day, quando il presidente giurerà davanti alla nazione.

Il momento sarà comunque delicato. Il 6 gennaio 2021, dopo il conteggio dei voti espressi dai grandi elettori, i fan di Trump avevano assaltato Capitol Hill, sede del Congresso. A questo giro, immaginiamo, indipendentemente dall'identità dei candidati arrivati all'ultimo stadio della corsa, le autorità americane saranno particolarmente attente nel cercare di evitare ogni possibile bis.

In questo articolo: