Il caso

Bondi Beach-Mindanao, andata e ritorno: il jihadismo filippino sotto la lente

L'attacco avvenuto lo scorso fine settimana ha riacceso il dibattito sulle Filippine come snodo del jihadismo nella regione: Sajid e Naveed Akram, si ipotizza, potrebbero essersi addestrati lì prima di aprire il fuoco sulla spiaggia più famosa di Sydney - Ne abbiamo parlato con il prof. Marco Lombardi, esperto di sicurezza e contrasto al terrorismo
© EPA/Dan Himbrechts (Keystone)
Giacomo Butti
19.12.2025 18:00

È passato qualche giorno, ormai, dall'attentato di Bondi Beach. Ma l’Australia è ancora alle prese con la ricostruzione dei passi che hanno portato Sajid e Naveed Akram, padre e figlio, a compiere la strage sulla spiaggia più famosa di Sydney. E un elemento centrale sembra essere il viaggio compiuto nelle Filippine dagli attentatori poche settimane prima dell’attacco. I due hanno soggiornato per quasi un mese nel sud dell’arcipelago, sull'isola di Mindanao - un’area segnata da una lunga storia di estremismo islamico - prima di tornare in Australia e aprire il fuoco durante la celebrazione ebraica nella quale sono morte 15 persone.

Il consigliere per la sicurezza nazionale delle Filippine, Eduardo Ano, ha dichiarato mercoledì che nelle indagini avviate non è emersa alcuna prova, al momento, del fatto che i due attentatori si siano addestrati con i militanti filippini del gruppo islamista Abu Sayyaf, presente sull'isola. Nel loro soggiorno a Davao, capitale de facto di Mindanao, i due attentatori non avrebbero ricevuto visite e sarebbero raramente usciti dall'hotel. Ma il caso ha comunque riacceso il dibattito sulle Filippine come snodo del jihadismo nel Sud-est asiatico. Ne abbiamo parlato con il prof. Marco Lombardi, professore di Sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna sicurezza e contrasto al terrorismo. 

Un hub storico

Per capire la natura del terrorismo islamico nelle Filippine, bisogna fare un salto nel passato. «Il gruppo Abu Sayyaf, storicamente basato sull'isola di Mindanao, è stato fondato nel 1991 da combattenti filippini» che, dopo aver lottato con i mujaheddin contro i sovietici, «erano di ritorno dall'Afghanistan», ci spiega Lombardi. «Connessi ad Al Qaeda prima e allo Stato islamico poi, il loro radicalismo religioso, in contrasto con lo Stato di tradizione cattolica delle Filippine, si sposa con un indipendentismo che mira alla separazione di tutta l'area» da Manila. La natura del gruppo ne definisce la pericolosità. «Gli attentati da loro compiuti hanno sempre interessato aree locali. Oggi non c'è, dunque, una minaccia diretta di esportazione del terrorismo da parte di Abu Sayyaf. È anche vero, tuttavia, che storicamente la zona in cui opera questo gruppo è considerata un hub di formazione. Si tratta di aree sviluppatesi solo recentemente, coperte da una fitta giungla e distanti dalle zone più industrializzate del nord delle Filippine. Fino a 15 anni fa era un luogo perfetto per attrarre jihadisti provenienti non solo dall'Asia, ma anche da Medio Oriente ed Europa, per periodi di addestramento».

Le raccomandazioni

L'area è stata teatro di rapimenti e attacchi. Alcuni attentati sono stati registrati anche recentemente, tutti nella stessa area, su Mindanao e isole parte della regione autonoma musulmana. E non a caso il DFAE continua a sconsigliare i viaggi turistici nelle aree in questione. Similmente, il ministero degli Esteri italiano raccomanda di «prestare la massima attenzione nella programmazione di viaggi in tutta la regione di Mindanao» con la sola eccezione dell'isola di Siargao, «ad alta vocazione turistica, che al momento non presenta criticità». Secondo l'esperto, tuttavia, l'emergenza nella regione si è ridotta nell'ultimo decennio, complice anche il pugno di ferro usato da Manila. «Si tratta di una zona impegnata in un forte sviluppo turistico: ciò spiega anche come mai le Filippine stiano cercando, negli ultimi giorni, di gettare acqua sul fuoco, chiedendo di evitare di definire l'arcipelago come un "covo di jihadisti"», evidenzia Lombardi.

In futuro

Quello filippino, dunque, è un terrorismo che si esporta solamente nella sua dimensione formativa? «Di fatto sì. E nemmeno per auto-promozione. È sempre stato così». Non è chiaro, come detto, se le ipotesi formulate in questi giorni da media e analisti australiani sui motivi del viaggio dei due attentatori nelle Filippine siano fondate. Secondo Lombardi non deve stupire che Mindanao e il gruppo Abu Sayyaf, «già noto per la sua vocazione, potremmo dire, di formatore», possa ancora essere utilizzato da "aspiranti" terroristi australiani per l'addestramento all'uso di armi. «Per chi proviene da quella regione del mondo, quella del sud-est asiatico è sicuramente la via più diretta, logisticamente parlando, per raggiungere gruppi di questo tipo». Un collegamento commerciale e civile che può fungere anche da via per il jihad, «per quanto residuale a livello di terrorismo globale».

«A stupire maggiormente, piuttosto, è il fatto che i due fossero in possesso di armi registrate». Nel 2019, Naveed Akram era stato indagato per un periodo di 6 mesi per i suoi legami con una cellula ISIS, al termine del quale era stato valutato che non rappresentasse una minaccia. E, ciononostante, era in possesso di un regolare porto d'armi. Lombardi non risparmia una critica al governo australiano: «Com'è possibile che una persona attenzionata avesse accesso ad armi? Serve buonsenso».