L'approfondimento

Che cos'è, e di chi è, il Donbas(s)?

Dal governatorato istituito da Caterina II all'epoca sovietica, passando per lo sfacelo postcomunista e arrivando alla guerra: facciamo chiarezza grazie all'analisi del ricercatore indipendente Luca Lovisolo
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Luca Lovisolo
27.05.2023 16:00

Non si comprende il Donbass se non si conosce la Novorossija («Nuova Russia»), il governatorato nell’Ucraina sud-orientale istituito nel 1764 da Caterina II «la Grande» dopo secolari guerre russe contro i tataro-mongoli. A quel tempo gli zar mirano a controllare il Mar Nero e il delta del Danubio: la Novorossija è il cuore del loro progetto. La «Nuova Russia» è cosmopolita: la sua storia è plasmata da inglesi, tedeschi, italiani, francesi e anche svizzeri, che impiantano vicino a Odessa delle viticolture esistenti tuttora, con i loro nomi francofoni. A ovest la Novorossija lambisce la Romania. A nord-est termina nelle campagne ucraine di confine verso l’interno della Russia: il Donbas, con una esse finale in ucraino, con due in russo. Il nome deriva da due parole: Donec, il fiume che attraversa la regione, e baseijn, «bacino». Don-bas, «bacino del fiume Donec». Il Donbas politico si trova in Ucraina, quello geografico raggiunge la regione russa di Rostov, dove il Donec confluisce nel celebre fiume Don.

Oggi il Donbas è simbolo delle pretese di Mosca sull’Ucraina. Sin dal 2014, e ancor più dal 24 febbraio 2022, il fiume Donec è al centro degli scontri armati. Funge da difesa naturale contro le truppe russe che puntano verso località diventate familiari anche a noi: Izjum, Lysyčans’k, Sjevjerodonec'k.

Il Donbas vive di luce propria, all’interno della Novorossija, da quando la rivoluzione industriale rende attrattive le sue risorse minerarie. Se si cerca su una mappa storica la città che oggi ne costituisce uno dei due capoluoghi, Donec’k, non la si trova. Si riconosce Bachmut, uno dei suoi centri più antichi. «Fortezza di Bachmut» non è un modo di dire coniato per la guerra di oggi: la città era davvero fortificata, in passato, contro gli attacchi dei tatari da sud e sud-est.

Una landa con abitati contadini

Fino alla seconda metà dell’Ottocento il luogo su cui oggi sorge la città di Donec’k non era che una landa punteggiata da abitati contadini. Nel 1869 John James Hughes, imprenditore britannico dell’acciaio noto per i suoi ritrovati in fatto di armamenti e blindature, riceve dall’imperatore russo Alessandro II l’incarico di sfruttare le ricchezze minerarie del Donbas. Hughes porta dal Galles macchinari e personale e costruisce uno stabilimento nei pressi di Andriivka (da non confondere con un più noto abitato omonimo presso Mykolaïv). Intorno alla fonderia di Hughes si sviluppa una città chiamata con una storpiatura del suo cognome, Juzovka. Viene poi ribattezzata Stalino, in onore di Stalin, e infine Donec’k.

Non molto diversa è la vicenda dell’altro capoluogo del Donbas, Lugansk. Più antica, già nominata come Lugan’ nelle mappe di inizio Settecento, anche questa città cresce per effetto dell’industrializzazione. Nel 1795 Caterina II incarica l’imprenditore scozzese Charles Gascoigne di costruirvi uno stabilimento per la produzione di armamenti e macchinari. La vecchia Lugan’ si trasforma in un centro industriale e diventa la Lugansk di oggi. Gascoigne stesso è artefice della prima pianificazione urbanistica della città.

Le popolazioni che giungono nei nuovi capoluoghi, portate dalle industrie, sono di lingua russa. Comincia a modificarsi la proporzione linguistica del Donbas, una regione contadina culturalmente ucraina. È un processo che si ripete in molti luoghi dell’impero zarista: l’industria arriva per iniziativa dei russi, ma grazie a menti e braccia europee, a causa del cronico ritardo tecnologico russo. La parità tecnologica con l’Occidente viene brevemente raggiunta solo dall’Unione sovietica di Stalin, prima di essere di nuovo perduta negli anni Sessanta. L’industrializzazione delle repubbliche non russe, però, continua a essere guidata dai russi, che detengono il know-how e controllano le attività produttive. Industrializzazione sovietica significa anche imposizione della lingua e cultura russa. Quando, nel 1991, l’Unione sovietica si scioglie, ingegneri e maestranze tornano in Russia. Molte repubbliche ex sovietiche, specie nel Caucaso e nell’Asia centrale, non hanno personale locale formato per far funzionare gli stabilimenti, che finiscono abbandonati o preda di oligarchi senza scrupoli. La storia del Donbas, così, è istruttiva per tante altre, nella vicenda coloniale sui generis della Russia imperiale e dell’Unione sovietica.

La Rivoluzione d'ottobre e il 1922

Le due province del Donbas vengono assegnate in via definitiva all’Ucraina tra la Rivoluzione d’ottobre e il 1922, quando Kyiv vive una breve indipendenza e poi aderisce all’Unione sovietica. Per il Donbas comincia una nuova storia: è polmone minerario e industriale non solo dell’Ucraina ma dell’intera URSS. Come accadeva spesso in Unione sovietica, i luoghi ai quali lo Stato riconosceva un significato economico o militare strategico offrivano condizioni di vita più attrattive, rispetto ad altre regioni: negozi ben forniti, servizi e abitazioni di qualità. L’industrializzazione di Stalin porta nel Donbas altra popolazione russa, che incide ancora sulle proporzioni etnico-linguistiche della regione. Nelle campagne si continua a parlare ucraino, nelle città sempre più russo.

Con l’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991, il Donbass non è più un orgoglio industriale dell’Unione sovietica. Resta una regione-chiave per l’economia, una sorta di Lombardia ucraina, ma lo scontento serpeggia. Il sociologo Ilija Kononov, in un illuminante studio uscito nel 2014 per Ostrov, dal titolo La sindrome di Lugansk, definisce il Donbas così: «Sul territorio della nostra regione si è costituita storicamente una sintesi culturale ucraino-russa. A qualcuno può piacere, a qualcun altro no, ma è la realtà».

Si crede spesso che la presenza di movimenti filorussi nel Donbas sia dovuta alla difesa della lingua. È una visione incompleta. Sin dalla fine degli anni Novanta, in una società ancora abituata alle provvidenze dello Stato comunista, i movimenti politici regionali, quasi tutti facenti capo a oligarchi e faccendieri emersi nella confusione post-sovietica, fanno sognare il ritorno nella regione dei privilegi perduti, raccolgono consensi promettendo posti di lavoro e sostegno sociale. Il governo centrale ucraino, da parte sua, fatica a rassicurare gli abitanti del Donbas, che temono, a torto o a ragione, il mancato riconoscimento del loro ruolo.

Le imprese del Donbas, legate agli stessi personaggi che si agitano in politica, orbitano intorno alla Russia. La prospettiva dell’avvicinamento dell’Ucraina all’Europa impaurisce, in un contesto imprenditoriale fermo allo sfacelo dell’era postsovietica. La vicinanza a Mosca non attrae solo gli affaristi, però. Riscalda anche i cuori della parte di popolazione legata al mito sovietico, idealizzato nella lingua russa.

Ma chi vuole la Russia?

Ma quanti abitanti del Donbas vogliono il distacco dall’Ucraina e l’annessione alla Russia? La risposta è in un sondaggio del 2017, svolto sul campo dall’International Republican Institute di Washington in collaborazione con l’istituto ucraino Rejting. Il 78% della popolazione del Donbas risponde che la regione deve restare parte dell’Ucraina, il 31% che dovrebbe beneficiare di maggiori poteri locali o di uno statuto speciale. Solo il 2% sostiene l’annessione alla Russia. I risultati corrispondono ad altre rilevazioni e ai dati esperienziali. Eppure, tre anni prima, secondo la Russia, la schiacciante maggioranza – il 79% e rispettivamente l’86% – avrebbe votato a favore della costituzione delle due autoproclamate «repubbliche popolari» di Donec’k e Lugansk, poi annesse illegalmente dalla Russia.

In questa contraddizione c’è il nocciolo della guerra di oggi. Il perché lo capiremo nel prossimo articolo. Intanto, lasciamo questo primo sguardo sul Donbas con la storia di un’insegnante di russo, Nika Minčenko, ucraina di Lugansk e di madrelingua russa, poi trasferitasi a Irpin, altra località-simbolo della guerra. Proprietaria di una scuola online di lingua russa, poche settimane dopo la ripresa della guerra del 24 febbraio 2022 chiude i corsi di russo e prosegue come scuola di ucraino. La guerra ha reso insopportabile per lei insegnare la sua lingua madre. Nika non è un’invasata nazionalista, è una pacifica giovane di trent’anni, come se ne incontrano ovunque in Europa. Intraprende un percorso di riqualificazione professionale, cambia nome e logo alla sua scuola. Lo fa da un ostello per rifugiati, perché ha dovuto abbandonare la sua casa dopo i tragici fatti di Irpin, ormai noti al mondo. Non ha mai smesso di comunicare via Internet, trasmettendo anche dalla cantina, quando le periferie di Kyiv venivano bombardate. Non è sola: secondo un sondaggio Rejting del marzo 2022, più della metà degli ucraini che parlavano russo in famiglia ha deciso di passare all’ucraino, riducendo la percentuale dei parlanti russo in Ucraina dal 38% al 18%. Oggi, dopo quindici mesi di guerra dura, tutto lascia credere che questa percentuale sia diventata ancora più bassa. Eppure, se si ascoltano i russi, sono proprio gli ucraini come Nika, cittadina del Donbas, di madrelingua russa, che Putin è sceso in armi a «liberare».

Questo approfondimento fa parte di una seria curata dal ricercatore indipendente Luca Lovisolo in esclusiva per CdT.ch. Per leggere la prima puntata clicca qui. Per la seconda clicca qui. Per la terza clicca qui. Per la quarta clicca qui.

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