Guerra in Ucraina

«Chi giustifica l’invasione di Putin usa false tesi su NATO e Donbass»

Il ricercatore Luca Lovisolo smonta le tesi più diffuse di chi sostiene l'azione russa: «C'è chi incolpa l'Occidente, intanto Putin bombarda i russofoni che diceva di voler tutelare»
Michele Montanari
22.03.2022 14:31

L'Ucraina resiste. Dopo quasi un mese dall'inizio dei bombardamenti, la guerra che infuria alle porte dell'Occidente non si placa. La conta dei morti prosegue senza sconti e nonostante l'atto di forza di Putin sia ormai sotto gli occhi di tutti, il mondo continua a dividersi. C'è chi giustifica l'ingiustificabile, in un mare di disinformazione che dilaga sui social network e nei salotti in tv. Persino politici e professori universitari alzano la voce con dichiarazioni che spesso fanno a pugni con la realtà. Secondo qualcuno, la guerra sarebbe scoppiata per colpa dell’Occidente, mentre per altri l'Ucraina avrebbe tirato troppo la corda. Con il ricercatore indipendente Luca Lovisolo, studioso di Europa dell’Est e autore del libro Il progetto della Russia su di noi (Archomai, 2020), proviamo a smontare queste «storie falsificate».

La promessa di non allargamento della NATO: un falso
Una delle tesi più utilizzate da chi giustifica l’invasione della Russia ai danni dell’Ucraina è quella sulla presunta promessa della NATO (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord) di non espandersi ad Est. Tradotto: la guerra sarebbe scoppiata principalmente a causa dell’Occidente. È un’accusa fondata? Luca Lovisolo spiega: «La storiografia russa, che poi è propaganda, si è inventata questa promessa della NATO di non allargamento a Est, interpretando a proprio vantaggio alcune espressioni che furono effettivamente dette durante i colloqui per la riunificazione della Germania e potevano essere interpretate in tal senso. È impossibile, però, che vi fossero tali riferimenti». Questo, sottolinea l’esperto, per tre ragioni: una di logica storica, una politica e una giuridica. «Da un punto di vista di logica storica, questa promessa non avrebbe potuto esistere, in quanto i due blocchi, durante i colloqui per la riunificazione tedesca, erano ancora esistenti. All’epoca non si sarebbe potuto immaginare che, solo un anno e mezzo dopo, il Patto di Varsavia e l’Unione Sovietica sarebbero caduti. Dunque, in quel momento, non avrebbe avuto senso una promessa di non allargamento della NATO: gli Stati dell’Europa dell’Est erano ancora incardinati nell’alleanza dell’URSS che, seppur in difficoltà, era ancora pienamente esistente, e nessuno avrebbe pensato ad un crollo di lì a poco. Dal punto di vista politico, quella promessa non poteva essere ricevuta da Gorbaciov, perché egli stava lavorando per tenere uniti l’URSS e il suo sistema di alleanze. Se l’allora presidente sovietico avesse accettato il non allargamento della NATO, significa che già a quei tempi dava per compiuto lo sfaldamento dell’Unione Sovietica e del blocco dell’Est, ma questo era politicamente contrario alla sua visione. Ricordiamo che Gorbaciov il 25 dicembre 1991 si dimise da presidente dell’URSS perché il suo progetto di tenere unito il Paese era fallito in conseguenza alla nascita della Comunità degli Stati indipendenti (CSI). Questa non fu voluta da lui, ma fu creata contro di lui da Russia, Ucraina e Bielorussia. È impensabile che un politico che cerca di tenere unita una realtà si sia impegnato un anno e mezzo prima in qualcosa che ne presuppone la caduta». Lovisolo poi spiega le incongruenze che si riscontrano quando si entra nel campo del diritto: «Da un punto di vista giuridico, una promessa tra USA (o Germania) e URSS sul non allargamento della NATO non avrebbe avuto nessun effetto perché, in generale, due Stati non possono accordarsi sul destino di altri, che fanno scelte sovrane. USA e URSS non avrebbero potuto accordarsi sulle alleanze scelte da un altro Paese. Se poi entriamo nello specifico, una presunta promessa avrebbe presupposto la modifica dell’articolo 10 del trattato dell’Alleanza atlantica, che stabilisce come questa sia aperta all’adesione di qualunque Stato che ne condivida gli obiettivi. Quindi si sarebbe dovuto modificare questo articolo per trasformare la possibilità di adesione di nuovi Stati alla NATO: da alleanza aperta, qual è oggi, sarebbe dovuta diventare un’alleanza chiusa, che non prevede l’adesione di nuove parti. Di questa modifica non solo non si è mai parlato, ma, qualora fosse stata proposta, avrebbe richiesto l’unanimità di tutti i Paesi membri per essere applicata. Un accordo solo tra USA e URSS non avrebbe prodotto alcun effetto». Il ricercatore poi sottolinea: «Tutta la falsificazione della storia che riconduce alle tante argomentazioni sulle minacce e sulle armi della NATO ai confini con la Russia parte da questa radice: la NATO aveva promesso di non allargarsi a Est. Ma questa radice è falsa e tutto ciò che ne deriva, di conseguenza, è insostenibile. Lo stesso Gorbaciov in interviste uscite anche sulla stampa russa disse che durante i colloqui della riunificazione tedesca non si parlò mai di allargamento della NATO. Nonostante questo, oggi la tesi della promessa è comunque alla base della propaganda che giustifica la guerra».

L’adesione dell’Ucraina alla NATO non è la vera causa della guerra, è solo un pretesto per l’inizio del conflitto e di tutta la retorica che gli sta intorno

Se l'Ucraina non può avvicinarsi all’Occidente
Ma allora perché il problema riguarda solo l’Ucraina e non, ad esempio, i Paesi baltici? Fin lì la NATO è arrivata senza troppi problemi e parliamo di Stati che facevano parte dell’URSS. Secondo Lovisolo il motivo è semplice: «L’adesione dell’Ucraina alla NATO non è la vera causa della guerra, è solo un pretesto per l’inizio del conflitto e di tutta la retorica che gli sta intorno. La dimostrazione di ciò, è che nei giorni scorsi il presidente ucraino Zelensky ha dichiarato che il suo Paese sarebbe disposto a rinunciare all’adesione alla NATO. Di fronte a questa affermazione però la Russia non ha fermato i combattimenti: l’adesione dell’Ucraina alla NATO non è il casus belli, altrimenti Putin si sarebbe fermato una volta raggiunto lo scopo. Serviva un argomento per lanciare la guerra che risponde al progetto di Putin: ricostruire l’egemonia della Russia sull’Europa dell’Est e giungere in questo modo ad un controllo politico su tutto il Continente, fino all’Atlantico (ne abbiamo parlato qui). Secondo l’esperto, è la storia che si ripete: «Quando nel 2014 iniziò la guerra in Ucraina, la Russia avanzò le stesse argomentazioni, ma in merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Ai tempi non si parlava neanche di adesione, ma di un trattato di cooperazione con l’UE. Anche in questo caso venne presa a pretesto l’adesione dell’Ucraina ad un’entità occidentale. Molti credono che Zelensky stia sacrificando le vite del suo popolo e che debba rinunciare al Donbass e alla Crimea per porre fine alla guerra. Non è così, il conflitto non finirebbe: quelle due zone sono solo la prima tappa di un progetto che, nella visione di Putin, deve andare molto più in là».

Rinunciare alla NATO?
Con Luca Lovisolo proviamo poi ad analizzare i vari aspetti nel caso in cui l’Ucraina rimanesse fuori dalla NATO, chiaramente in cambio di un cessate il fuoco, che al momento sembra non essere nelle intenzioni di Putin. Il ricercatore afferma: «Se la Russia fosse disponibile a fermare i combattimenti in cambio dell‘adesione alla NATO, per l’Ucraina potrebbe non essere particolarmente dannoso. Ricordiamo che la sua entrata nell’Alleanza atlantica era prevista in uno spazio di tempo di una decina d’anni, quindi rinunciarvi oggi sposta le cose di poco. L’Ucraina potrebbe compensare questa rinuncia entrando nell’UE con una sorta di statuto neutrale, come l’Austria e la Svezia (che sono Paesi UE ma non membri della NATO, ndr). Se non entrasse né nella NATO né nell’Unione europea, l’Ucraina rischierebbe di ricadere nella sfera russa per posizione geografica e per situazione oggettiva. Se entrasse almeno nell’UE, si troverebbe in un sistema economico e di valori occidentale, che le impedirebbe di finire ancora sotto l’egemonia russa. Questa potrebbe essere una situazione transitoria, non una rinuncia definitiva, perché non sappiamo come si evolverà la situazione nei prossimi anni». Lovisolo aggiunge: «Detto ciò, se il conflitto dovesse durare a lungo, sarà sempre più difficile convincere i dirigenti e l’opinione pubblica ucraini a restare fuori dalla NATO, perché gli unici Paesi che in questo momento si stanno salvando dalla guerra sono proprio i membri dell’Alleanza atlantica: la Russia non li attacca perché sa che verrebbero difesi da tutta l’alleanza. Ricordiamo poi che l’Ucraina ha già avuto una cattiva esperienza in questo senso, quando, nel 1994, ha raggiunto una sorta di stato di neutralità rinunciando alle armi nucleari. Questo in cambio di una garanzia da parte di alcune potenze, tra cui la Russia. L’integrità territoriale ucraina però non è stata rispettata come promesso. Oggi è difficile pensare che gli ucraini accettino un'altra garanzia sulla carta: la Russia aveva chiesto di non aderire alla NATO in cambio di protezione, ma intanto oggi piovono le bombe. La scelta di non adesione si scontra con ostacoli che la stessa Russia ha collocato sul percorso».

Le repubbliche non riconosciute e i referendum 
Oltre alla questione NATO, c’è un altro argomento decisamente spinoso e avvolto in un lungo manto di disinformazione: il Donbass. Le cosiddette Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk, nonostante non siano riconosciute dall’ONU, dall’UE e dall’Ucraina, vengono spesso chiamate in causa dai sostenitori di Putin. Lovisolo affronta la questione: «C’è stato un lavoro ben strutturato da parte della propaganda che, sia sui social media sia sulla stampa, è riuscita a fare passare il concetto di come queste entità siano Stati a tutti gli effetti. Si è diffusa la convinzione che siano repubbliche autonome a cui l’Ucraina vuole togliere il diritto di autodeterminazione. I referendum per l’indipendenza sono stati organizzati dalla potenza occupante, in un territorio occupato. Non c’è stata nessuna verifica internazionale e i risultati, che sono stati gestiti esclusivamente dalla potenza occupante, non corrispondono con le varie rilevazioni statistiche e sociologiche svolte prima dell’occupazione. Secondo un sondaggio dell’International Republican Institute, svolto nel 2014,  in questi territori la percentuale di popolazione che riteneva che i russofoni fossero minacciati e approvava un intervento russo a loro protezione oscillava tra il 17 e il 24%, proprio nelle regioni orientali russofone. Pur considerando tutte le variabili e le possibilità di errore dei sondaggi». I due referendum non sono stati riconosciti dalla comunità internazionale. In tal senso l’esperto puntualizza: «Quando vengono a dire che il 90% della popolazione ha votato a favore dell’indipendenza di quelle repubbliche, qualcosa decisamente non torna. In più c’è stato tutto un lavoro di carattere politico destinato a convincere autorità locali, come i sindaci, ad instituire addirittura delle rappresentanze ufficiali di questi Stati. Queste ovviamente non venivano chiamate consolato o ambasciata, ma avevano uffici, carte intestate, intervenivano nel dibattito politico dei singoli Stati e addirittura organizzavano mostre all’estero: si è cercato in tutti i modi di dare una sostanza a due entità che non esistono. Però il meccanismo ha funzionato e questo è il tipico risultato di guerra ibrida che, attraverso l’informazione e la pressione sulla politica, riesce a far riconoscere ad alcune autorità e all’opinione pubblica dei fatti non esistenti».

Putin dovrebbe spiegarci dov’è finita la tutela della popolazione russofona che va sbandierando, se poi si accanisce contro città dove prevale proprio la popolazione russofona

Putin bombarda anche i russofoni
Ma come si è arrivati ai fantomatici referendum che hanno portato alle Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk? Secondo Lovisolo, la questione etnico-linguistica citata da Putin per giustificare la sua missione di «denazificazione» dell’Ucraina sarebbe solo altro fumo negli occhi: «L’indipendenza dei due territori non è nata per ragioni di carattere etnico-linguistico. Quelle due regioni del Donbass hanno una struttura linguistica che è del tutto simile a quella di Kharkiv e di Odessa. Sono città nelle quali prevale l’uso della lingua russa, mentre nelle campagne intorno prevale la lingua ucraina. Se pensiamo alla Svizzera, le diverse lingue coincidono in gran parte con i confini cantonali, in Ucraina invece le diverse comunità linguistiche convivono tra città e campagna, e a volte anche all’interno di rami della stessa famiglia. Quello ucraino è un multilinguismo diverso da come lo immaginiamo noi. L’origine di questo indipendentismo del Donbass in realtà è di carattere economico. Si tratta di regioni trainanti, come può esserlo ad esempio la Lombardia per l’Italia. Già dalla fine degli anni ‘90 questi territori hanno cominciato a sviluppare una forma di aspirazione all’autonomia - nemmeno all’indipendenza - simile a quello economico che caratterizza il Veneto di oggi. Il ragionamento alla base è il seguente: noi siamo le regioni trainanti e vogliamo avere una considerazione diversa da parte dello Stato». Il nostro interlocutore prosegue: «Come per il 90 % dei movimenti autonomisti, poi vengono sfruttati elementi linguistici e culturali per ottenere risultati di carattere economico o politico. Si cerca di far valere la propria potenza economica e dunque si trovano argomenti come la lingua e la cultura per veder riconosciuta la propria diversità». Lovisolo entra nello specifico: «Nel Donbass si è arrivati all’esagerazione di tutto questo quando il presidente Yanukovich (in carica dal 2010 al 2014, ndr), che proveniva da quelle regioni e ne portava alla presidenza dello Stato centrale le istanze, è caduto. Quei territori hanno perso colui che rappresentava il loro desiderio di autonomia fondato su rivendicazioni di carattere economico. Questo ha causato disordini che sarebbero rimasti limitati se la Russia non fosse intervenuta. Il Cremlino ha capito che poteva cavalcare quel sentimento. Ha caricato il movimento autonomista di un messaggio indipendentista e ha armato le frange di estrema destra e di estrema sinistra: le protagoniste della lotta che ha portato alla formazione delle due repubbliche. Nel mentre, il partito di centro che esprimeva il presidente Yanukovich si è sfaldato e ha lasciato campo libero alle bande di indipendentisti spinte dai russi. Dalle iniziali questioni economiche ha preso piede la narrazione dell’indipendentismo nel nome dell’autodeterminazione dei popoli». Anche questa faccenda sarebbe un pretesto della guerra di Putin: il presidente russo ha infatti affermato di voler proteggere i russofoni che vivono in Ucraina. Lovisolo fa notare la contraddizione: «A Kharkiv e Odessa un movimento simile a quello del Donbass non si è sviluppato, nonostante abbia cercato di prendere piede. Quelle città hanno una struttura etnico-linguistica del tutto simile a quella di Donetsk e Lugansk, ma non lo stesso tipo di rivendicazioni economiche. Se osserviamo cosa sta accadendo in questi giorni nel teatro di guerra, notiamo un ulteriore elemento che rafforza il discorso etnico-linguistico: Putin sta bombardando e distruggendo Mariupol e Kharkiv, due città a maggioranza russofona. Ora il presidente russo dovrebbe spiegarci dov’è finita la tutela della popolazione russofona che va sbandierando, se poi si accanisce contro città dove prevale proprio la popolazione russofona». Il ricercatore conclude: «I cittadini russofoni sono ucraini, non sono filorussi. In Ucraina esistono diverse minoranze linguistiche, circa una quindicina. Sono riconosciute dalla Costituzione e hanno una loro identità, che prescinde dalla lingua parlata. Un ticinese parla italiano, ma è svizzero, così come un cittadino di Kharkiv è ucraino, anche se parla russo. Questo non vuol dire che voglia riunirsi alla Russia, sono invenzioni di Putin. E purtroppo anche di alcun media».

 

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