Il fenomeno

Come stiamo divorando l'Amazzonia un hamburger alla volta

La deforestazione del «Polmone verde» della Terra procede spedita, sotto la pressione dei grandi allevatori pronti a occupare i nuovi spazi — Anche la Svizzera non ha la coscienza pulita: difficile dimostrare che il mangime importato non provenga da zone disboscate illegalmente — PUNTATA 1
Giacomo Butti
31.05.2022 14:30

La carne bovina costa. Per il portamonete, sì, ma anche per il clima. Sono fatti di cui si è già parlato e riparlato. Tematiche quali l'emissione di metano causata dall'animale (ogni giorno una mucca può emettere dai 300 ai 500 litri di metano) o il costo ambientale dell'esportazione delle sue carni sono state analizzate da ogni punto di vista. E le soluzioni sembrano poche: a cambiare radicalmente la situazione sarebbe solo il portare meno frequentemente a tavola la bistecca. Ma il problema non riguarda solamente l'allevamento e il trasporto. Le mandrie hanno bisogno di ampi pascoli: a chi "rubare" il terreno dove crescere i bovini? Al bosco, ovviamente. Recentemente, il Washington Post ha pubblicato un'ampia inchiesta sulla relazione fra deforestazione dell'Amazzonia e nascita di nuovi ranch (illegali). Il risultato? Le mappe che mostrano il regredire della foresta coincidono perfettamente con quelle dell'incedere dei nuovi allevamenti. Uno segue l'altro. E gli Stati Uniti giocano un ruolo fondamentale in questo processo: da quando, due anni fa, Washington ha deciso di riammettere l'import di carne cruda brasiliana, il Paese ne è divenuto il secondo principale acquirente. Senza contare che, a prescindere dalla provenienza dei tagli, gli Stati Uniti ne sono anche i più grandi consumatori: pur rappresentando "solo" il 4% della popolazione mondiale, consumano il 20% della sua carne bovina.

Con Greenpeace Svizzera, Animal Equality Italia e l'esperto di Storia dell'Amazzonia Antoine Acker, professore all'Università di Zurigo, abbiamo voluto approfondire l'argomento da un punto di vista ambientale, animale e storico-politico. 

Di seguito, la prima puntata con Greenpeace.

Un ranch nella regione di Pará, Brasile. / © Shutterstock
Un ranch nella regione di Pará, Brasile. / © Shutterstock

L'accordo e il riciclaggio

Agli Stati Uniti, dicevamo, piace la carne bovina. In particolare quella proveniente dal Brasile. Nel 2021, secondo dati raccolti dal già citato quotidiano americano, il Paese ha acquistato quasi 150 mila tonnellate di manzo brasiliano. Se dovesse mantenere il ritmo attuale, nell'anno corrente la quota potrebbe addirittura raddoppiare. Da tempo, però, la catena di produzione è sotto la lente delle autorità brasiliane e (soprattutto) internazionali: troppe le fette di Amazzonia finite letteralmente in fumo per permettere l'avanzata degli allevatori. Impegnata nella promozione della tracciabilità e della trasparenza del settore, nel 2009 Greenpeace ha pubblicato un'indagine nella quale puntava i riflettori sul coinvolgimento dell'industria della carne nella deforestazione. Un'indagine che ha portato al "G4 Cattle Agreement", un accordo firmato dai quattro principali fornitori del Paese: JBS, Bertin (successivamente acquistata da JBS), Marfrig e Minerva. Le aziende firmatarie si sono impegnate ad effettuare una serie di controlli nelle proprie catene di approvvigionamento. Tra questi il saper dimostrare di rifornirsi di bestiame proveniente da allevamenti che non hanno praticato la deforestazione, invaso terre indigene, o ottenuto in altri modi illegali i propri terreni. Un altro aspetto importante dell'accordo era la tracciabilità dei bovini acquistati, uno che consentisse il monitoraggio, la verifica e la rendicontazione della loro origine. I risultati? Deludenti. Analizzando migliaia di registri di spedizioni e acquisti, ed esaminando le immagini satellitari degli allevamenti amazzonici, il Washington Post ha scoperto che JBS (così come, verosimilmente, anche le altre aziende) non si è allontanata dagli allevatori macchiatisi di deforestazione illegale. Di più: tra gennaio 2018 e ottobre 2020, JBS ha effettuato almeno «1.673 acquisti di bestiame da 114 allevatori che al momento possedevano almeno una proprietà citata per deforestazione illegale». E non parliamo di qualche misero alberello: alcuni di questi allevatori sono riconosciuti come gli attori più distruttivi dell'Amazzonia. Insomma, i giganti del settore alimentare hanno ancora parecchia strada da fare prima di poter dire di aver mantenuto la promessa di tredici anni fa.

A complicare le cose, il fatto che spesso ad essere "fuori norma" non sia il fornitore diretto. Frequentemente, ad andare contro le regole dell'accordo non è chi vende le carni direttamente alle aziende distributrici, ma chi sta al gradino più basso: i fornitori indiretti. Con un complesso gioco di "riciclaggio di bestiame", gli animali vengono mescolati e scambiati da un ranch all'altro, da uno che non è "in regola" a uno che lo è; così viene nascosta l'origine illegale dei bovini. Ed ecco dunque per quale motivo i casi scoperti dal giornale statunitense non possono che essere considerati la punta dell'iceberg di una pratica diffusissima. 

E gli Stati Uniti? Benché il presidente Biden si sia espresso apertamente sulla necessità di preservare l'Amazzonia, l'agenzia che autorizza gli impianti di confezionamento della carne brasiliana a esportare negli Stati Uniti non ha, fra i suoi compiti, quello di determinare se le operazioni delle aziende causino danni ambientali. La Food Safety and Inspection Service si è negli ultimi anni concentrata maggiormente su un altro problema, quello dell'afta epizootica (malattia altamente contagiosa dei ruminanti e dei suini) riscontrata in alcuni campioni. Una patologia, insieme ad altre violazioni riscontrate in Brasile nelle pratiche di sicurezza alimentare, che aveva spinto gli Stati Uniti a imporre lo stop dell'importazione nel 2017. E che oggi preoccupa ancora gli allevatori americani e altri gruppi per la sicurezza alimentare, nonostante (come già evidenziato) nel 2020 sia stato nuovamente concesso il via libero all'acquisto di carne brasiliana.

Con il mercato in continua crescita, le spinte verso una regolamentazione sembrano sempre più deboli. Ne abbiamo parlato con Greenpeace Svizzera.

Il limite fra foresta e fattorie di soia. / © Shutterstock
Il limite fra foresta e fattorie di soia. / © Shutterstock

JBS come i giganti dei combustibili fossili

L'indagine pubblicata nel 2009 dall'organizzazione ambientalista e pacifista sembra aver portato ben pochi frutti, dicevamo. E oggi a preoccupare Greenpeace non è solo la deforestazione degli allevatori, ma anche quella degli agricoltori. La coltivazione della soia, fondamentale come mangime per gli animali allevati intensivamente, richiede spazi. E ne sta prendendo sempre più. «Come già documentato più volte da Greenpeace, l'espansione della soia in Brasile è stata spesso collegata a violazioni dei diritti umani e alla distruzione di ecosistemi critici di cui l'umanità ha bisogno per sopravvivere, come le praterie del Cerrado», ci conferma la sezione svizzera dell'organizzazione. Negli ultimi anni le cose sono degenerate: «La situazione è peggiorata da quando Bolsonaro è al potere, più territori indigeni sono stati invasi dall'industria agroalimentare e mineraria».

La situazione è peggiorata da quando Bolsonaro è al potere, più territori indigeni sono stati invasi dall'industria agroalimentare e mineraria
Greenpeace Svizzera

A Greenpeace chiediamo cosa si possa fare per cambiare questa tendenza. JBS e le altre aziende devono fare di più? «A livello globale, JBS è il più grande ingranaggio del distruttivo settore industriale della carne. È talmente grande che si stima che le sue operazioni producano circa la metà delle emissioni annuali di carbonio di giganti dei combustibili fossili come ExxonMobil, Shell o BP. Un recente studio di Greenpeace International mostra chiaramente che il modello di business di JBS è incompatibile con l'emergenza ambientale che stiamo affrontando. È fondamentale che l'intero sistema alimentare, dai produttori ai consumatori, cambi verso un modello di consumo più sostenibile». E dell'impatto dei consumatori avevamo già parlato: l'hamburger deve essere meno presente sulle nostre tavole. Agli Stati Uniti, che da soli consumano il 20% della carne bovina mondiale, serve un cambio di mentalità, «e questo vale anche per la Svizzera», evidenzia Greenpeace. «Con il nostro studio TOP Vision e il nostro studio sulla dipendenza alimentare abbiamo mostrato quanti prodotti animali siamo in grado di consumare grazie all'importazione di mangimi, quanti sarebbero senza importazioni e quanti ne consumeremmo se attuassimo la nostra TOP Vision». Già, perché secondo gli studi di Greenpeace, il marchio "carne svizzera" rappresenterebbe «un'etichetta fraudolenta». Come? Semplice: la Svizzera non ha abbastanza terra coltivabile per crescere il mangime necessario a sostentare una così elevata popolazione animale. Per questo, secondo l'organizzazione, è necessaria una massiccia importazione di mangime (di qui il fatto che la "carne svizzera" non sia al 100% svizzera): un altro importante tassello nel mosaico dell'inquinamento generato dal settore della carne.

Stiamo monitorando la situazione e facciamo pressione sul nostro governo affinché cambi la gestione del bestiame
Greenpeace Svizzera

E da dove proviene questo mangime? Sì. Dal Brasile. «Ci stiamo assumendo la responsabilità di monitorare e fare pressione sul nostro governo affinché cambi la gestione del bestiame nel nostro Paese, che dipende fortemente dalle importazioni di mangimi dal Brasile», evidenzia Greenpeace Svizzera. «Con il nostro studio pubblicato l'anno scorso abbiamo dimostrato che anche la soia certificata non è realmente tracciabile». E se non è tracciabile, potrebbe quindi provenire da aree disboscate illegalmente. Insomma, anche la Svizzera potrebbe aver bisogno di un esame di coscienza. 

A fine 2021, l'Unione europea ha pubblicato un progetto di legge con la quale limitare la deforestazione. Ma sarà abbastanza? Secondo Greenpeace la risposta è «no». «A livello europeo, i diversi uffici di Greenpeace chiedono una legge forestale più forte che includa alcuni punti molto importanti anche per le foreste e gli ecosistemi brasiliani».

Con il nostro studio abbiamo dimostrato che anche la soia importata dal Brasile non è realmente tracciabile
Greenpeace Svizzera

Ed ecco la lista delle richieste dell'organizzazione ambientalista:

- Requisiti chiari di tracciabilità e trasparenza: «Le aziende devono essere obbligate a rintracciare le materie prime e i prodotti fino al punto di raccolta e produzione, per verificare che non siano legati alla deforestazione. A ciò vanno aggiunti rigidi controlli da parte delle autorità».

- Proteggere tutti gli ecosistemi, non solo le foreste: «Molti altri ecosistemi che vengono distrutti per produrre materie prime destinate al consumo europeo sono ora lasciati senza protezione, come le zone umide del Pantanal (Brasile) dove viene fatto spazio a pascoli per le mucche, le savane del Cerrado dove si pianta la soia o le torbiere dell'Indonesia dove si producono olio di palma e cellulosa».

- Rispettare le leggi internazionali sui diritti umani: «La proposta di legge forestale non prevede il rispetto delle leggi internazionali sui diritti umani nella produzione di materie prime per i mercati europei e si basa invece sulle leggi dei Paesi produttori. Molti di questi Paesi non hanno tradotto gli obblighi di legge internazionali sui diritti umani in leggi nazionali e alcuni stanno addirittura eliminando le protezioni legali per le terre delle popolazioni indigene (in Brasile) o per le foreste fondamentali per le comunità locali (nella Repubblica Democratica del Congo)».

- Coprire tutti i prodotti di base e derivati che mettono a rischio le foreste e gli ecosistemi: «La proposta di legge suggerisce di regolamentare solo sei prodotti: carne bovina, olio di palma, soia, caffè, cacao e legno, anche se molti altri prodotti consumati in Europa mettono a rischio le foreste e gli ecosistemi, come la gomma, il mais e altre carni diverse dalla carne bovina (come il maiale e il pollame)».

- Prevedere regole per il settore finanziario: «Il progetto di legge forestale chiude un occhio sull'intero settore finanziario, anche se i 27 Stati membri dell'UE hanno ricavato dal 2016, secondo le stime, 401 milioni di euro solo dalla distruzione delle foreste».

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