Stati Uniti

La mossa del procuratore generale infiamma la campagna di Trump

Per la prima volta nella storia, un ex presidente americano è stato incriminato dopo un’indagine penale – Martedì il tycoon dovrebbe presentarsi a Manhattan di fronte alla Corte – Il fronte repubblicano fa quadrato attorno al suo leader: «Militarizzazione della giustizia»
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Davide Mamone
31.03.2023 18:30

Alla fine è successo. Donald Trump è il primo ex presidente della storia degli Stati Uniti a essere incriminato a seguito di un’indagine penale. Il procuratore generale della corte di Manhattan, Alvin Bragg, dovrà provare di fronte a un giudice che l’inquilino di Mar-A-Lago in Florida, un tempo alla Casa Bianca, ha usato fondi della sua campagna elettorale 2016 per pagare il silenzio della pornostar Stormy Daniels, con cui avrebbe avuto una relazione sentimentale dieci anni prima. La notizia è giunta quasi a ciel sereno giovedì a ora di cena negli Stati Uniti, dopo che nelle prime ore del mattino si erano rincorse insistenti voci sul fatto che il grand giurì newyorkese avesse bisogno di più tempo per esprimersi sulla vicenda. Il primo verdetto, anche se non definitivo, è invece arrivato: il grand giurì, un tipo speciale di giuria allargata (dai 16 ai 23 membri), ha considerato sufficienti le prove a carico di Trump e costretto l’ex presidente a difendersi a processo.

Cosa succede ora

Trump non ha appreso la notizia dalla corte o da coloro che hanno indagato su di lui, ma dal New York Times, che ha pubblicato la breaking news esclusiva facendo scuotere le pareti del Paese e della città di New York. Trump dovrebbe presentarsi martedì in Corte di fronte al procuratore generale di Manhattan e concedersi all’arresto, ma nessuno sa bene cosa aspettarsi. Gli verranno prese le impronte digitali. Verranno scattate le foto segnaletiche. E potrebbe esserci un periodo di carcere preventivo, prima di stabilire i prossimi passi del caso. Nel sistema anglosassone, così come in quello nostrano, vale la presunzione d’innocenza: non si è colpevoli a meno che un PM (in questo caso Bragg) sappia motivare e dimostrare il contrario. Solo di fronte al giudice, scoop giornalistici a parte, verrà svelato il contenuto dell’incriminazione nel dettaglio e si inizierà a capire come Trump potrebbe impostare la propria difesa in corte. Se può essere vero che la legge sia uguale per tutti, una grossa differenza balzata all’occhio degli addetti ai lavori in queste ore è che Trump non si presenterà in corte scortato solo dai suoi avvocati: ci saranno anche gli agenti dei servizi segreti del Paese che lo sta incriminando, al suo «servizio», perché agli ex presidenti la scorta spetta a tempo indeterminato alla fine del proprio mandato.

Le reazioni repubblicane

Sui social, l’ex presidente non ha avuto invece molti dubbi su come reagire: ha gridato subito allo scandalo sul suo social media Truth e non ha perso tempo, inviando numerose mail contenenti richieste di donazioni per la sua campagna elettorale. Il linguaggio è stato quello che ne contraddistingue la postura politica dal Russiagate del 2018 a oggi: riassumendo, è un complotto. «È un’incriminazione politica e una caccia alle streghe, vogliono gettarmi nel fango», ha scritto Trump, sostenuto da una schiera di repubblicani intervenuti pubblicamente a sua difesa. Alla sua stregua, sono infatti comparsi fin dalla notte di giovedì quasi tutti i conservatori più influenti. Il senatore del South Carolina Lindsey Graham ha detto che i repubblicani sono pronti a lottare e che Trump vincerà sia in tribunale che alle urne l’anno prossimo. L’ex vicepresidente Mike Pence ha detto a CNN che l’incriminazione di un ex presidente per un caso relativo a delle fatture sospette rappresenta un precedente pericoloso. Il leader di maggioranza alla Camera Steve Calise, deputato della Louisiana, ha definito l’incriminazione «uno dei più chiari esempi di militarizzazione della giustizia da parte del Governo americano» contro un oppositore politico. La leader newyorkese del partito Elise Stefanik ha parlato di «giorno oscuro» per gli Stati Uniti.

Le altre indagini

Se il presidente Joe Biden sembra tenersi stretto l’anonimato dalla Casa Bianca, ricordandosi cosa accadde nel 2020 quando vinse le elezioni puntando tutto sul silenzio e i toni pacati, per Trump c’è poco di cui stare tranquilli. E non solo per l’incriminazione. Altri due filoni d’indagine, infatti, sono destinati a perseguitarlo a lungo nei prossimi mesi, includendo accuse, se possibili, ancora più pesanti. In Georgia, nella Fulton County, i PM locali continuano nella loro investigazione sul suo ruolo nel tentato rovesciamento della sconfitta elettorale del 2020, che culminò nell’insurrezione del Campidoglio del 6 gennaio. «Devi trovarmi 11.000 voti», disse Trump il 3 gennaio 2021 al segretario di stato della Georgia Brad Raffensperger, una conversazione telefonica che venne pubblicata dal Washington Post e che costituì un precedente pericoloso sulla stabilità del sistema elettorale americano. E non è finita qui, perché il Dipartimento di Giustizia ha assegnato al procuratore speciale Jack Smith la gestione di altre due investigazioni: la prima, sui documenti confidenziali che Trump si portò a casa in Florida senza permesso; la seconda, più significativa, sul suo ruolo nell’attacco al Campidoglio il giorno in cui la democrazia americana si a avvicinò al baratro come mai prima. Al riguardo, Smith ha inviato all’ex vicepresidente Mike Pence un mandato di comparizione.

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