L'intervista

«L'Iran frena, ma non per favorire la de-escalation: prende tempo per l'atomica»

Con Paolo Capitini, generale dell'Esercito italiano nonché esperto di scienze strategiche e storia militare, analizziamo la situazione fra Israele e Iran
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Giacomo Butti
19.04.2024 14:00

Ritorsione, prometteva Israele, doveva essere. Ritorsione è stata. A cinque giorni dall'attacco iraniano, lo Stato ebraico ha colpito con alcuni droni, la scorsa notte, una base militare situata nella città iraniana di Esfahan. Mentre la guerra a Gaza continua senza quartiere, lo scontro con Teheran è ormai, a tutti gli effetti, diretto. Come leggere i nuovi sviluppi? Ne parliamo con Paolo Capitini, generale dell'Esercito italiano ed esperto di scienze strategiche e storia militare.

È da domenica, dalle ore seguenti l'attacco contro Israele, che l'Iran minaccia: «Non contrattaccate o ne pagherete le conseguenze». Ma ora che il contrattacco israeliano è arrivato, Teheran tenta di sminuire l'entità dei danni subiti. Non solo. Nelle ore immediatamente successive il raid, addirittura, l'Iran ha evitato con cura di indicare un responsabile straniero, e ancor meno di puntare il dito contro Israele. Perché? Davvero si tratta di un tentativo di de-escalation?
«No, non è una de-escalation. E per capire le ragioni, bisogna fare un passo indietro e inquadrare la situazione. Dopo tanti anni di confronto a distanza – o confronto attraverso fiancheggiatori, da una parte e dall'altra –, Iran e Israele si affrontano a viso aperto e questo è un elemento molto importante. Teheran ha deciso di uscire allo scoperto e quando vuole, quando decide più conveniente, scendere in campo direttamente. Importante, in quest'ottica, la strategia dettata dai tempi. L'Iran non ha nessunissima fretta di confrontarsi militarmente – o più militarmente di quanto già stia facendo – con Israele. Questo perché sta cercando di completare il proprio programma nucleare. Se l'Iran divenisse una potenza nucleare, gli equilibri dell'intera regione cambierebbero e soprattutto sarebbe alla pari con Israele. Finché il suo programma nucleare non sarà completato, l'Iran non vede alcun vantaggio nel passare a una guerra aperta e ad alta intensità. Del resto, per mantenere la pressione alta, alla Repubblica islamica basta regolare le azioni di Hezbollah, di Hamas, degli Houthi».

E Israele, invece?
«Israele ha esigenze esattamente opposte: ha bisogno – quanto più velocemente possibile – di avere la certezza che l'Iran non sia e non divenga a breve termine una potenza nucleare. E questo spiega la fretta e l'aggressività del governo Netanyahu: non è solamente una questione umorale, di pancia. Questi sono i due pilastri della questione: necessità di tempo per l'Iran, scarsità di tempo per Israele. E poi ci sono gli attori terzi. Dal lato di Israele si trovano gli Stati Uniti, sempre più deboli. Non deve, per esempio, passare inosservato il fatto che la risoluzione al Consiglio di Sicurezza ONU della scorsa notte (risoluzione sull'ammissione a pieno titolo della Palestina alle Nazioni Unite, ndr) sia stata bocciata solo per il veto degli Stati Uniti: anche alcuni alleati di Washington hanno votato a favore e la Gran Bretagna, da tempo una sorta di cinquantunesimo Stato dell'Unione, ha preferito astenersi. Ciò rende bene l'idea di quale sia, oggi, la posizione statunitense nella comunità internazionale. Dietro l'Iran, invece, ci sono la Cina, l'India e soprattutto la Russia, riconoscente per il sostegno di Teheran nell'offensiva ucraina. L'Iran fornisce infatti droni e tecnologie, mentre i russi ricambiano personale specializzato nell'industria nucleare e missilistica. Con questo quadro complessivo, parlare di de-escalation per l'atteggiamento remissivo tenuto oggi dall'Iran significherebbe perdere la visione d'insieme. Il mondo che dovremo affrontare per qualche anno è un altro ed eventi come quello di stanotte sono destinati a ripetersi».

In queste settimane Washington pare, appunto, debole, inascoltata. Pone condizioni al proprio aiuto a Israele e, intanto, condanna l'Iran, ma entrambi agiscono come preferiscono. Gli Stati Uniti sono davvero così impotenti?
«Per quanto posseggano ancora la prima economia e il più forte esercito, oggi gli Stati Uniti fanno un po' meno paura di un tempo. Il fatto che abbiano perso molta della loro capacità di dettare l'agenda in varie parti del mondo è sotto gli occhi di tutti. Sei mesi di Gaza, la guerra in Ucraina, la Cina che minaccia di prendersi Taiwan. È l'effetto della fine della globalizzazione, intesa come secolo americano, e dell'inizio del multipolarismo. Washington possiede ancora, tuttavia, tanti strumenti per fare pressioni, e li utilizza. Gli Stati Uniti, del resto, non vogliono che l'Iran si trasformi in una nuova Corea del Nord e condividono con Israele la preoccupazione per un Iran armato con l'atomica».

I due conflitti si stanno legando nel senso che sono due guerre indipendenti dalla volontà americana, costretta sin qui a un gioco di rimessa. Che poi alcuni aspetti tecnici si stiano ripresentando in Medio Oriente come in Ucraina, è innegabile. Un esempio? La strategia utilizzata dall'Iran per colpire Israele ricalca perfettamente quella utilizzata quotidianamente in Russia contro l'Ucraina per i suoi attacchi

Mosca, come da lei accennato, sembra sempre più vicina a Teheran. I legami tra i due conflitti si stanno facendo sempre più stretti?
«I due conflitti si stanno legando nel senso che sono due guerre indipendenti dalla volontà americana, costretta sin qui a un gioco di rimessa. Che poi alcuni aspetti tecnici si stiano ripresentando in Medio Oriente come in Ucraina, è innegabile. Un esempio? La strategia utilizzata dall'Iran per colpire Israele ricalca perfettamente quella utilizzata quotidianamente in Russia contro l'Ucraina per i suoi attacchi. Saturare le difese aeree con droni e, al contempo, inviare pezzi pregiati – missili di una certa capacità – e con quelli colpire. Da questo punto di vista, a livello di tattiche di impiego, siamo già nella replica della guerra ucraina in Israele».

Israele ha colpito Esfahan, una città importante per l'Iran e sede di un importante sito nucleare. Tel Aviv ha voluto lanciare un messaggio?
«Sì. Siamo, per così dire, a una fase interlocutoria del linguaggio delle armi. Israele ha colpito una delle basi aeree più importanti, quella dove si trovano gli F-14 più o meno riammodernati dall'Aeronautica iraniana. Lì c'è anche una centrale di arricchimento dell'uranio e sempre lì si trova una sede protetta dei Guardiani della rivoluzione islamica, i pasdaran. Gli israeliani lo sapevano benissimo, non è certo un caso. Dopo quarant'anni di confronto, ognuno sa esattamente tutto dell'altro. E Israele qui ha voluto ribadire: "Sappiamo dove si trovano questi siti importanti e volendo possiamo raggiungerli. Sappiamo dove fare male". Un messaggio lanciato dall'Iran anche la scorsa settimana. Sono scambi da fondo campo, per utilizzare una metafora tennistica. Al momento, a rete, non c'è andato ancora nessuno».

Come valuta le speculazioni di alcuni analisti sulle tempistiche della preparazione, da parte di Teheran, di un'arma nucleare? Alcuni parlano di mesi, altri addirittura di settimane.
«Questi sono argomenti conosciuti da pochissimi e anche chi li conosce ha tutto l'interesse a utilizzarli – o manipolarli – per la propria causa. Per mettere paura al mondo intero, basta parlare di settimane. Per tranquillizzare tutti, si parla invece di anni. Una cosa, però, è certa. Se l'Iran dovesse raggiungere questo obiettivo, entreremmo in una fase geostrategica completamente diversa, la quale scatenerebbe una reazione a catena. Anche Arabia Saudita ed Egitto, per fare un esempio, vorranno armarsi. Ben presto, dal nulla, la regione potrebbe contenere la più alta densità al mondo di potenze atomiche. Uno scenario insostenibile per la sicurezza del pianeta».

L'Iran ci ha messo due settimane a reagire al raid israeliano su Damasco. Israele ha impiegato meno di una settimana a preparare il contrattacco. Possibile che la velocizzazione non dipenda solo dalla paura del nucleare ma anche da un bisogno, per il governo Netanyahu, di mantenere l'attenzione internazionale sull'Iran invece che sulla fortemente criticata guerra a Gaza?
«Sì, è un effetto concorrente. Tutto il mondo ora è concentrato sul confronto fra Teheran e Tel Aviv, mentre sembra quasi che fra Tel Aviv e Rafah non stia più accadendo nulla. Sono convinto, comunque, che Gaza ritornerà alla ribalta. Per Israele rappresenta una ferita aperta. Peraltro, sono più di sei mesi che le Forze di Difesa israeliane stanno combattendo nella Striscia. Un lasso di tempo che, per le logiche israeliane, rappresenta un'era geologica. Le guerre di Israele sono sempre state molto veloci: giorni, settimane, poco più. Il fatto di impegnare quasi tutto l'esercito per sei mesi è una novità, così come è una novità che Israele non riesca, rapidamente, a venire a capo del problema. Presto il governo Netanyahu potrebbe ritrovarsi a dover rispondere a delle domande: "Abbiamo fatto tutto questo, ma cosa abbiamo risolto?"».