Quanto sono lontani, ora, gli Stati Uniti da Israele?

L'amministrazione Biden, verrebbe da dire, le ha provate tutte. Pubblicamente. Ma anche in forma privata. Le ha provate tutte, dicevamo, per impedire che Israele attaccasse Rafah. E invece, puntuale, poco dopo l'annuncio di Hamas («Abbiamo accettato la proposta di un cessate il fuoco formulata da Egitto e Qatar») le Forze di difesa dello Stato Ebraico hanno condotto attacchi mirati contro obiettivi nemici. Dove? A Rafah, sì. E dire che, appunto, il presidente statunitense aveva messo in guardia il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il minimo che si possa dire, ora, è che fra l'America e Israele vi sia un fossato o, quantomeno, una divisione sulla strategia da seguire per riportare a casa gli ostaggi e, in ultima istanza, per porre fine alla guerra.
Hamas, indubbiamente, ha giocato una carta importante. Secondo analisti ed esperti, il gruppo militante palestinese ha cercato, con questo sì che suona tanto di controfferta, di mettere ulteriore pressione a Israele. «Sembrerebbe – le parole di un funzionario sotto anonimato a Reuters – un espediente per far apparire Israele come il cattivo che rifiuta un accordo». Allo stesso modo, come sottolinea il Wall Street Journal, anche l'attacco di Israele a Rafah potrebbe essere una tattica negoziale. In mezzo, beh, ci sono gli Stati Uniti. Che, sin dalle prime reazioni post 7 ottobre, hanno sempre sostenuto il diritto di Israele a difendersi. Facendo pure confluire nello Stato Ebraico miliardi di dollari in armamenti. Nella speranza, verosimilmente, di poter influenzare dietro le quinte le strategie dei leader israeliani, Netanyahu in testa. Nelle ultime settimane, per contro, Washington ha spinto (e non poco) affinché Israele e Hamas trovassero un accordo per un cessate il fuoco di almeno sei settimane. Secondo i funzionari statunitensi, una pausa è più che necessaria per garantire il rilascio degli ostaggi, compresi i cittadini americani, e fornire un'opportunità alle normalizzazioni delle relazioni fra Arabia Saudita e Israele. «Se saremo in grado di ottenere l'accordo, con il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, cercheremo il modo di costruire qualcosa che sia sostenibile nel tempo» aveva dichiarato mercoledì scorso il segretario di Stato Antony Blinken dopo un incontro con Netanyahu a Gerusalemme.
Netanyahu, per contro, da tempo insiste sulla necessità di eliminare i quattro battaglioni di Hamas e la leadership del gruppo, che si trova a Rafah. «L'idea che fermeremo la guerra prima di aver raggiunto tutti i suoi obiettivi è fuori discussione» aveva detto Netanyahu la scorsa settimana, secondo una dichiarazione del suo ufficio. Non solo, il primo ministro aveva avvertito che Israele sarebbe entrato a Rafah per distruggere i battaglioni di Hamas «con o senza un accordo». Ieri sera, lo Stato Ebraico ha cominciato con obiettivi specifici, stando all'IDF. Washington, per settimane, ha insistito sul fatto che non avrebbe appoggiato una grande incursione di terra a Rafah, a meno che Israele non presentasse un piano efficace per garantire la sicurezza del milione e oltre di palestinesi rifugiatisi proprio nella città al confine meridionale di Gaza. Un obiettivo difficilmente realizzabile, quest'ultimo, a detta di alcuni funzionari americani. «Gli Stati Uniti non sosterranno l'offensiva di Rafah attualmente prevista da Israele» aveva dichiarato lunedì il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller. «Tale offensiva aumenterebbe drammaticamente le sofferenze del popolo palestinese».
Ieri, lunedì, gli israeliani hanno sganciato dei volantini che intimavano a 100 mila persone di evacuare la zona orientale di Rafah per l'area costiera di al-Mawasi. Spiegando che l'IDF avrebbe usato «la forza estrema contro le organizzazioni terroristiche nelle aree in cui vivete». La mossa israeliana, stando agli esperti, potrebbe andare proprio nella direzione auspicata dagli americani. Quella, cioè, di evitare una grande incursione di terra. Per ora, lo Stato Ebraico sta conducendo operazioni più limitate. Nello specifico, l'IDF ha assunto il controllo del valico di Rafah. Riassumendo, da una parte Israele è disposto a parlare di un cessate il fuoco – tant'è che ha deciso di inviare una delegazione ai colloqui – mentre dall'altra, in parallelo, sta portando avanti i suoi obiettivi militari. Un aspetto, questo, con addentellati politici per dirla con il Wall Street Journal: «Il calcolo di Netanyahu è molto più incentrato sul mantenimento della sua coalizione di governo che sulla felicità di Joe Biden» ha sintetizzato Aaron David Miller, ex negoziatore di pace statunitense ora impiegato presso il Carnegie Endowment for International Peace. Netanyahu, pur in ripresa a livello di consensi, sta cercando un equilibrismo politico non indifferente. Nell'ottica, appunto, di rimanere in sella. Per farlo, per restare al governo s'intende, il primo ministro non deve alienarsi l'estrema destra. Che, di fermare la guerra prima di aver raggiunto tutti gli obiettivi, non vuole saperne.
La differenza di vedute su Rafah e, in generale, sulle strategie adottate dallo Stato Ebraico, fra l'altro, ha spinto Washington a ritardare la vendita di migliaia di armi di precisione a Israele, sebbene la Casa Bianca finora non abbia confermato (né smentito) la mossa. La tempistica di questa vicenda, per contro, lascerebbe supporre che gli Stati Uniti volessero interferire, in un qualche modo, con l'obiettivo israeliano di invadere Rafah.