La storia

Se la boxe si fa largo fra la guerra

Sin dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica il pugilato ha diviso russi e ucraini – Dai fratelli Klitschko ai sostenitori di Putin, ecco il conflitto visto e vissuto dagli sportivi
Marcello Pelizzari
22.03.2022 17:00

La rivalità, beh, era nota anche ai tempi dell’Unione Sovietica. Mosca contro repubbliche satellite. E viceversa. Prendete il calcio: c’erano le squadre della capitale, su tutte lo Spartak. E c’erano le rivali più accreditate, come la Dinamo Tbilisi di Davit Kipiani e, ancora, la Dinamo Kiev.

Con la dissoluzione dell’URSS, tuttavia, gli animi si sono esacerbati. Se è vero che le istanze internazionali del pallone hanno, sapientemente, evitato che le formazioni russe e ucraine si incrociassero nelle varie competizioni, l’orizzonte del pugilato non sempre ha seguito la medesima linea. Sono volati pugni, dentro al ring ma non solo.

Ivan Drago e gli altri

Senza scomodare l’immarcescibile Rocky IV e la supersfida fra lo stesso Balboa e il granitico Ivan Drago, durante la Guerra Fredda la boxe rappresentava l’ideale confronto fra Occidente e grigiore sovietico. La fine del comunismo, per contro, aprì la via del professionismo (e del turbocapitalismo) anche a Est. Diversi pugili russi e ucraini cominciarono ad affacciarsi sulla ribalta internazionale. I primi, ancora legati alla militarizzazione dello sport, trovarono subito nei secondi il nemico preferito.

I colossi dell’Est, in ogni caso, hanno dominato la scena dal 2000 in avanti. I fratelli Vitali e Wladimir Klitschko, impegnati in prima linea nella resistenza all’invasore russo, fra il 2008 e il 2012 hanno fatto incetta di titoli nei pesi massimi.

Nel 2013, forte di 25 milioni di dollari, il magnate Andrey Ryabinsky riuscì a convincere Wladimir ad affrontare Aleksander Povetkin, il Leone Bianco di Kursk. C’erano voluti anni e anni di colloqui, tira e molla, opere di convincimento. Alla fine, però, Russia e Ucraina ebbero il loro derby dei guantoni.

Tanto per gradire, inizialmente gli organizzatori pensarono di mettere in agenda l’incontro il 7 ottobre, quando Vladimir Putin compie gli anni. La sfida, prima che sul ring, venne combattuta fra i tifosi. Ventitré milioni di ucraini assistettero all’incontro davanti al televisore. Lo stesso fecero i russi. Per la cronaca, vinse Klitschko ai punti.

Il quartetto che combatte

L’annessione della Crimea e lo scoppio della guerra nel Donbass, va da sé, hanno peggiorato (e di molto) i rapporti sportivi fra i due Paesi. Da allora, si contano diverse rinunce da parte ucraina. Ad esempio, Oleksandr Usyk motivò così il suo rifiuto ad affrontare a sua volta Povetkin: «Se combattessi, tutto si trasformerebbe in politica e volerebbero insulti. Non mi sta bene, non ne ho bisogno».

L’Ucraina, in ogni caso, sebbene più piccola ha dato alla boxe un contributo maggiore in questi anni: i due Klitschko, Usyk e, di nuovo, Vasyl Lomachenko, due ori olimpici e titoli iridati in tre categorie di peso.

Il quartetto, in queste ultime settimane, sta combattendo al fianco di soldati e civili. Vitali Klitschko, sindaco di Kiev, è spesso immortalato per le strade, giubbotto antiproiettile e nessuna voglia di arrendersi ai russi, al fianco del fratello. Usyk e Lomachenko, invece, hanno mollato la carriera per tornare in Ucraina e unirsi ai combattimenti.

Usyk, fra le altre cose, a suo tempo venne criticato per come reagì all’annessione russa della Crimea. Ovvero, per il suo (quasi) silenzio che sapeva (quasi) di approvazione, lui che è originario di quelle terre. Oggi, però, il pugile è molto attivo sui social: nei suoi discorsi si fondono patriottismo, fede e, soprattutto, astio verso Vladimir Putin.

I «putiniani»

La Russia, a sua volta, ha cooptato pugili ed ex pugili. Nikolai Valuev, il gigante, membro della Duma, ha votato per riconoscere l’indipendenza delle repubbliche di Lugansk e Donetsk, secondo logica è finito nel mirino delle sanzioni occidentali. Povetkin, fresco di ritiro, ha giustificato l’invasione dell’Ucraina. E ancora: Denis Lebedev ha annunciato l’addio a Instagram con tanto di denunzia alla politica «filo-nazista» di Meta.

E poi c’è chi, dovendo combattere, ha preferito l’equilibrismo. Un classico, di questi tempi: Dmitry Bivol, che a maggio sfiderà Saul Alvarez, si è affrettato a dire di non essere un politico. E di avere amici da un lato come dall’altro. Inutile dire che il Cremlino punta tantissimo sulla sua vittoria.

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