Il punto

Viaggi estremi: perché ci sono persone disposte a rischiare tutto?

Il turismo estremo e l'ossessione per l'avventura: intervista a Claudio Visentin, docente di Cultural History of Tourism nel Master in International Tourism all’Università della Svizzera italiana
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Marcello Pelizzari
24.06.2023 21:30

I viaggi estremi non sono né rari né inconsueti. Così, alcuni giorni fa, scriveva il collega Dario Campione. Vero, verissimo. Dalla profondità dei mari e degli oceani alle vette dell’Himalaya, fino allo spazio e al sogno di aprirvi addirittura un hotel permanente. Se, in passato, ai ricchi piaceva semplicemente lasciarsi coccolare in una struttura di lusso, la nuova moda prevede avventure sempre più spericolate. Come se lo spirito scientifico che aveva guidato le spedizioni negli angoli più remoti della Terra fosse qualcosa di acquistabile. È andata più o meno così, con varie sfumature, in occasione dell’ultimo, tragico viaggio del Titan. Per capirne di più, per capire in particolare che cosa spinga una fascia di popolazione a tentare l’intentabile, ci siamo rivolti a Claudio Visentin, docente di Cultural History of Tourism nel Master in International Tourism all’Università della Svizzera italiana.

Professore, partiamo da una domanda forse banale: perché alcune persone non si accontentano della vacanza standard ma cercano sempre di più il rischio e l’avventura?
«Innanzitutto, e questa è una risposta molto semplice che potrei dare, perché in tutti noi c’è un certo spirito di avventura. Uno spirito in parte indomabile. I grandi alpinisti dicevano: devo scalare le montagne perché le montagne sono lì. Non c’è una ragione per scalarle, ma la sfida è rappresentata dal solo fatto che siano di fronte a me. Questo è il primo punto: la tendenza all’avventura, alla scoperta. Particolarità anche positive dell’uomo».

E il secondo?
«Il fatto che le disgrazie succedano. D’accordo, forse nel caso specifico del Titan c’era anche una componente di impreparazione. Ma, in generale, le disgrazie succedono. Ed è strano, in questo senso, il nostro stupore. La morte in fondo fa parte del biglietto, è un prezzo da pagare: Messner perse il fratello sul Nanga Parbat. Ogni tanto, in montagna, può staccarsi un seracco e portarsi via un alpinista. Non è che debba sempre esserci una spiegazione particolare. Detto dell’emozione molto intensa, delle disgrazie ritenute inammissibili ma, in realtà, parte del nostro vivere quotidiano, il senso di sfida per questi ambienti estremi, mi preme altresì fare una riflessione e una distinzione».

Prego.
«Alcuni ritengono che tutto sia stato visto, esplorato e conosciuto, per cui se vogliamo vedere qualcosa di nuovo dobbiamo andare nello spazio o sondare gli abissi. Non a caso, i due estremi del turismo più spinto. Proprio perché, in mezzo, c’è l’idea che niente ci sia sfuggito».

Quella portata avanti da chi pratica turismo estremo è un’idea un po’ primitiva di viaggio, perché sottovaluta la ricchezza e la bellezza del mondo. Un mondo che cambia di continuo, peraltro

E non è così?
«In un certo senso sì, è così. Ma quella portata avanti da chi pratica turismo estremo è un’idea un po’ primitiva di viaggio, perché sottovaluta la ricchezza e la bellezza del mondo. Un mondo che cambia di continuo, peraltro. Noi possiamo avere a disposizione tutte le carte geografiche dell’India, ma possiamo dire di conoscere a fondo quel Paese? Altro esempio: Busan è una delle città più importanti della Corea del Sud, ma fino all’anno scorso io stesso non sapevo della sua esistenza. C’è tantissimo da vedere e scoprire senza necessariamente andare in profondità negli oceani o in cima all’Himalaya o, peggio ancora, nello spazio. È un’idea, quella del turismo estremo, figlia di una visione del viaggio povera, poco elaborata, fatta di bianco e nero o se preferite di tinte forti, senza sfumature. Ma per i viaggiatori più preparati, e forse capaci, il nostro mondo è pieno di avventure».

Ma non c’è il rischio di finire intrappolati nel turismo di massa?
«L’impressione, oggi, è che ci siano turisti ovunque. Abbiamo parlato molto, in queste settimane, dell’estate furente e della ripartenza del settore. Ma i turisti, in fondo, vanno sempre negli stessi posti. Parliamo di cento, centocinquanta mete: Firenze, Venezia, Roma e Barcellona per citarne alcune. Perché, allora, non tentare l’Indonesia o l’Africa equatoriale? Davvero, non serve andare a quasi 4 mila metri di profondità per allontanarsi dalle folle».

Dunque, il turismo estremo è una questione di ricchezza e, diciamo, tracotanza? Della serie: sono ricco, molto ricco e voglio dimostrare di poter arrivare dove nessuno è mai arrivato.
«Un po’ di tracotanza, indubbiamente, c’è. È come se questo spirito avventuriero il riccone di turno volesse comprarselo. In generale, c’è un aspetto molto importante. Un nuovo concetto di lusso, chiamiamolo così. Quello vecchio, per quanto attuale fra i nuovi ricchi, era considerato una comodità: hotel bellissimi, servizi, cibo di primissima qualità. Un lusso che abbiamo conosciuto anche in Ticino. Adesso, invece, il lusso è andare dove nessuno può andare, concedersi un’esperienza estrema, al relitto del Titanic alla riserva naturale in cui nessuno potrebbe entrare. Il lusso, insomma, non è più attestato dal livello di eccellenza ma dal tipo di esperienza, estrema appunto. E un po’ di tracotanza, in tutto questo, c’è. Una tracotanza che, nel caso del Titan, si è scontrata con possibili errori nella preparazione ma anche con il semplice destino. E così, un desiderio di lusso si è trasformato in una bara vicino a un’altra bara, il Titanic».

Questa cosa di giocare a fare gli scienziati è una specie di greenwashing, una cosmesi, un’apparenza. Sei tu, ricco e annoiato, che per giustificare i soldi spesi ammanti l’esperienza estrema di una veste scientifica

Il Titan, secondo alcuni, era all’intersezione fra turismo e scienza. Ma all’industria, in fondo, interessa il guadagno. È possibile che la sicurezza sia stata sacrificata sull’altare dei soldi?
«Faccio due considerazioni. La prima: questa cosa di giocare a fare gli scienziati è una specie di greenwashing, una cosmesi, un’apparenza. Sei tu, ricco e annoiato, che per giustificare i soldi spesi ammanti l’esperienza estrema di una veste scientifica. Ah, devo verificare lo stato di conservazione del relitto. E via discorrendo. Ma si tratta di una finta. Seconda considerazione: l’industria del turismo deve guadagnare, sì. Può darsi, rimanendo sul Titan, che ci sia stata una sottovalutazione del rischio: proprio perché il desiderio di un’azienda è fare soldi. In questo senso, il batiscafo che implode non è molto diverso da un autobus cui non è stata fatta la giusta revisione che va fuori strada. Il desiderio di contenere le spese, in qualsiasi campo, c’è. Detto ciò, non bisogna comunque dimenticare che in ambienti così brutali basta una minima cosa per provocare una disgrazia. Ergo, forse alla base di questa disgrazia c’è stata negligenza. Ma anche nelle migliori condizioni un incidente è sempre possibile».

Concludendo, questa tragedia fermerà il trend o, al contrario, passata la tempesta mediatica i viaggi estremi, in qualsiasi ambito, torneranno a dominare il pensiero dei ricchi? In questo senso, qual è il limite?
«Difficile a dirsi. Intanto, c’è di buono che stiamo esplorando gli ultimi ambienti estremi della Terra. Non è rimasto molto altro. La prossima frontiera, credo, sarà Marte: Elon Musk si è già attivato per vendere viaggi verso il Pianeta Rosso. Ecco, una possibilità se mi passaste la battuta potrebbe essere quella di spedire tutti i ricchi su Marte con un biglietto di sola andata. Sarebbe un modo di fare la rivoluzione sociale davvero interessante e innovativo. Ah, potremmo anche trattenere qui le loro ricchezze e usarle per curare il Pianeta. Non a 4 mila metri di profondità, ma in superficie: ne avremmo tanto bisogno».

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