«Più un nemico è invisibile, più ci sentiamo impotenti»

«Spari in centro a Bruxelles, ci sono almeno due morti». È con parole simili che siti di informazione e notiziari, lunedì sera, annunciavano quanto accaduto nella capitale belga. Scatenando panico e paura. In poche ore, gli attentati sono tornati a spaventare l'Europa. La tragedia degli scorsi giorni in Belgio, unita ai continui allarmi bomba alla reggia di Versailles e negli aeroporti francesi (ieri e oggi anche quello di Basilea-Mulhouse è stato evacuato), ci ha riportato davanti agli occhi le terribili immagini degli attacchi terroristici avvenuti nel nostro continente negli ultimi anni. Alcuni rivendicati dall'ISIS, altri da Al Qaeda. Da quello di Madrid nel 2004, a quello dell'anno successivo, nel luglio del 2005, alla metropolitana di Londra. Fino a quelli più vicini nel tempo, come gli attentati multipli del 13 novembre 2015 a Parigi, al Bataclan, allo Stade de France e in diversi bar della capitale francese. Ma anche quelli di Bruxelles, Nizza e Berlino nel 2016. E persino al mercatino di Natale di Strasburgo, nel 2018.
Il terrorismo, spesso, viene definito come un nemico invisibile. Un nemico da cui è difficile ripararsi, mettersi in guardia, e che colpisce nei momenti più inaspettati. Spesso, nella quotidianità. Rendendoci, proprio per questo, più spaventati e più vulnerabili. Dopo tragedie come quella di lunedì sera a Bruxelles, in molte persone è riemersa la paura di uscire di casa con tranquillità. Di aspettare il bus, di andare in un centro commerciale o solo a fare la spesa. Ma anche la paura di viaggiare, di prendere un aereo, di visitare piazze, musei e monumenti di un'altra città. Per capire l'origine di questi sentimenti e sensazioni, abbiamo approfondito il tema con la psicoterapeuta Lara Franzoni.


Identificarsi con le vittime
Gli attentati, dicevamo, su alcuni di noi hanno un impatto decisamente molto forte nella vita di tutti i giorni. Addirittura, nei casi più gravi, possono rendere un inferno qualunque commissione di routine che normalmente verrebbe eseguita senza la minima preoccupazione. Ma come ci spiega Lara Franzoni, la «colpa», se così si può definire, spesso non è da attribuire al singolo episodio in sé, ma alle immagini di esso che vengono divulgate. «Da tempo sappiamo che anche la sola esposizione alle immagini drammatiche può essere potenzialmente traumatica e causare una forte attivazione emotiva», chiarisce la psicoterapeuta. «Dunque, quando leggiamo le notizie o guardiamo i telegiornali siamo esposti a una moltitudine di informazioni e immagini. E senza volerlo, ci identifichiamo con le persone coinvolte e anche con le vittime, specie quando queste ci appaiono simili a noi». Basti pensare a tutti gli attentati che hanno preso di mira i cittadini mentre aspettavano la metropolitana per andare al lavoro, o mentre passeggiavano in tutta tranquillità per le vie della loro città. «È proprio la capacità di identificarsi con le persone coinvolte che rende le immagini già sconvolgenti potenzialmente traumatiche».
E non solo. Oltre a immedesimarci con le vittime, anche la vicinanza con i luoghi, fisica ed emotiva, in cui accadono queste tragedie gioca un ruolo importante. «Anche le precedenti esperienze di esposizione rendono più vulnerabili le persone ai sentimenti di paura, mentre all'opposto, la percezione di poter in qualche modo influenzare e controllare la realtà rappresenta un fattore protettivo». Per questa ragione, precisa Lara Franzoni, gli psicologi valutano caso per caso quando discutere con i loro pazienti di ciò che avviene nel mondo, così da comprendere quando un'esposizione mediatica possa essere fonte di sofferenza emotiva.
Non solo il terrorismo
Ma non sono solo gli attentati a far paura. Pensandoci, anche tragedie come quella avvenuta a Mestre nelle scorse settimane, fanno scattare nella nostra mente preoccupazioni e ansie che, fino a prima di conoscere la notizia, non ci sfiorano neppure. «Mentre pensiamo di tenere a bada la nostra ansia tenendoci informati, il flusso informativo fissa nella nostra mente immagini drammatiche unite a una grande quantità di dolore con cui facilmente entriamo in empatia. Queste informazioni rimangono naturalmente disponibili nella nostra mente e vengono nuovamente attivate anche da un lieve input, cosa che poi si riflette nella nostra quotidianità».


Il nemico invisibile
Tuttavia, esiste qualche differenza quando si tratta di terrorismo. Basti pensare che un attentato ci mette nella posizione di temere «qualcuno», e non solo «qualcosa». Il cosiddetto «nemico invisibile». E averci a che fare, spiega la psicoterapeuta, significa avere poche possibilità di agire, contribuire e riprendere il controllo sulla situazione. «L'auto efficacia, al contrario, permette di sentirsi utili anche in circostanze drammatiche, riportando sotto controllo parte dello stress, ma anche senso di minaccia, preoccupazione e rabbia. Per questo motivo, tanto più un nemico è invisibile, tanto più le persone tendono a sentirsi impotenti».
Gestire il flusso di notizie negative
Provando a guardare la questione da un'altra prospettiva e, dunque, ragionando con numeri e statistiche, si può riuscire a mantenere la calma e a tenere a bada le paure. Pensandoci, infatti, il rischio di rimanere coinvolti in un attentato terroristico non è maggiore a quello di perdere la vita in un incidente d'auto, in un giorno ordinario. «È quindi importante imparare a contenere il circuito di informazioni e stress. Essere esposti in modo continuativo a informazioni negative ci rende sempre più spaventati e ci fa sentire in balia di qualcosa di imminente», osserva la psicoterapeuta. «Può quindi essere utile filtrare il flusso di news negative, soprattutto in presenza di minori, o cercare di non concentrare queste informazioni nei momenti che dovrebbero essere di relax, come mentre si sta mangiando, o prima di addormentarsi». Evitare di fare doomscrolling, quindi, può essere una prima soluzione per tenere a bada ansie e paure. «Altrettanto importante, poi, è imparare a condividere tali preoccupazioni, che sono spesso comuni, anche nelle nostre relazioni vis a vis, e non esclusivamente tramite interazioni virtuali». Parlarne ad alta voce, insomma, può fare la differenza.