L'editoriale

Quando il cinema racconta l'aria che tira

Torniamo sul film-caso del momento, «A House of Dynamite», di Kathryn Bygelow: il suo merito? Descrivere questo particolare momento globale di sospensione
Paolo Galli
04.11.2025 06:00

Ricordo una discussione da bar. Roba di vent’anni fa. Il barista ci avvertiva: «Occhio che tra Stati Uniti e Canada scoppierà una guerra». Noi, stupiti: «Ma come, in che senso? E che cosa te lo fa dire?». «Ho visto un cartone animato, per caso, e gli Stati Uniti dichiaravano guerra al Canada». Scoprii poi che il cartone animato in questione era South Park. All’epoca, il suo - «Occhio che con i cartoni animati molti, prima, hanno fatto propaganda...» -, era un avvertimento da complottista, da catastrofista, poi la storia ci ha portato dove siamo ora. E gli Stati Uniti vorrebbero prendersi il Canada, sì. E sono scoppiate guerre alle porte di casa, alle porte d’Europa. Donald Trump ha schierato interi arsenali contro Venezuela e Nigeria. Insomma, le cose sembrano sfuggite di mano.

E il cinema - con la sua capacità di essere, spesso, istantaneo -, raccontando il presente, si vede chiamato a raccontare anche questa particolare condizione, che trascende la diplomazia globale e determina il nostro generale smarrimento individuale. Una condizione fatta di confusione, che regna in particolare rispetto a guerre di difficile lettura, ma anche a ritrovate minacce di conflitti addirittura più ampi, quando non mondiali. Lo stesso papa Francesco parlava già di terza guerra mondiale «combattuta a pezzi». Una guerra in atto. E che Kathryn Bigelow, nel suo thriller A House of Dynamite, in qualche modo ferma in un particolare ipotetico istante. Una ventina di minuti scarsi di fatti, isolati ed estemporanei, con l’America sotto attacco atomico. Non è chiara l’origine della minaccia. Non è chiara, quindi, fino all’ultimo - e non voglio spoilerare -, quale possa essere la risposta del presidente statunitense.

Non è interessante, qui, sottolineare quanto il film sia riuscito o meno (le critiche sono discordanti), o quanto sia realistico (il Pentagono dice poco o nulla, mentre gli autori affermano evidentemente il contrario). Interessante è riconoscere l’aria che tira e che il film – questo sì – ha saputo descrivere. Interessante è la sospensione in cui ci lascia, a cui ci costringe e che ci interpella. Noah Oppenheim, che lo ha scritto, in un’intervista suggerisce una possibile lettura: «È questo il mondo in cui vogliamo vivere?». Il 30 ottobre, attraverso il suo social Truth, lo stesso Trump scriveva: «Gli Stati Uniti possiedono più armi nucleari di qualsiasi altro Paese. Questo obiettivo, incluso un completo ammodernamento e rinnovamento delle armi esistenti, è stato raggiunto durante il mio primo mandato. A causa dell’enorme potere distruttivo, ODIAVO farlo, ma non avevo scelta! La Russia è seconda e la Cina è terza, ma sarà in parità entro cinque anni. Grazie ai programmi di test di altri Paesi, ho incaricato il Dipartimento della Guerra di iniziare a testare le nostre armi nucleari su base paritaria. Tale processo inizierà immediatamente».

L’aria che tira, già. Con la realtà che, in qualche modo, dimostra di superare sempre più spesso la fantasia. Per una volta, in questo caso, la fantasia ha provato a rimettere la freccia e a superare a sua volta. Ma in realtà è quel finale sospeso – che ci ha ricordato, anche nelle imperfezioni, un certo cinema impegnato degli anni Settanta, così poco consolatorio – a restare. Non tanto il fatto che il film parli di una possibile guerra nucleare. È proprio la sospensione, è l’attesa, è la paura di vivere qualcosa che non conosciamo o che abbiamo dimenticato, è il timore di perdere il bello del mondo. Sono anni che viviamo queste emozioni, anche nell’ingenuo Occidente moderno. Dalla pandemia in avanti, ci avvertiamo esposti. Lo scenario attuale è assimilabile, allora, a quello della Guerra fredda. Con l’ombrello nucleare che è tornato ad aprirsi sulle nostre teste. Ricordate la morale di un film di quegli anni, Wargames? «L’unica mossa vincente è non giocare». Oggi ci interroghiamo: non stiamo ancora giocando, vero?

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