Riflessioni sulla realtà più che sui numeri

Nel corso del 2023, o al più tardi nel 2024, la Svizzera raggiungerà quota 9 milioni di abitanti. Presto, tempo qualche anno, passerà in doppia cifra: 10 milioni. Le domande della politica, in effetti, sono già rivolte a quel passaggio. C’è chi prova a mettersi di traverso e chi, con più adeguato realismo, pretende risposte, piani, strategie. Perché quella è la direzione, e tempo e modo per imporre un’inversione di marcia non ce ne sono. Poi, certo, tutto fa brodo nella corsa alle elezioni federali. Ma chi l’ha detto che tornare indietro sia davvero conveniente, per la nostra economia? Tutti gli specialisti ci raccontano che la crescita demografica è un segno, se non addirittura la conseguenza, della prosperità economica e sociale. E allora perché provare a fermarla?
Ci sono modelli economici che indicano anche direzioni contrarie, ma come ci ricorda Michel Oris, professore all’Università di Ginevra, per adeguarsi a essi il Paese sarebbe comunque chiamato a una sorta di rivoluzione, che metterebbe in discussione molto della nostra mentalità e del nostro approccio all’economia, al lavoro, più in generale alla vita. Finché ci mostriamo ambiziosi, nel solco del cammino intrapreso, sarà difficile accettare brusche imposizioni o freni da tirare in piena corsa. Quello dei 10 milioni di abitanti è un muro, che stiamo per raggiungere e che raggiungeremo. Ma se davvero è un muro, prima di sbatterci il muso, sarà comunque necessario in qualche modo prepararci all’impatto, facendo in modo di attutirne le conseguenze.
Abbiamo capito che la crescita demografica, in Svizzera, è rapida, è più rapida qui che in gran parte del mondo. Ma sin qui la politica ha saputo reagire alla tendenza. Se pensiamo alla Svizzera, nonostante questa accelerazione, pensiamo infatti a un Paese tutto sommato sicuro, in cui il tasso di disoccupazione è tra i più bassi e in cui lo stato di salute della popolazione è generalmente buono. Se pensiamo al nostro futuro, vediamo alcuni limiti legati alle infrastrutture, basti pensare a quelle legate alla mobilità, agli alloggi, e su questo - oltre che sul tema dell’inclusione - ci sembra corretto e tempestivo battere il chiodo, pretendendo strategie e programmi all’altezza della situazione e della nostra tradizione.
Ciò riguarda anche le realtà che stanno già pagando il prezzo di queste tendenze, le periferie, le zone di montagna, il Ticino. Il nostro cantone è in netta controtendenza, perde abitanti, invecchia e non sembra in grado di sostituire la popolazione attiva. Perché tutto si gioca attorno a questo fattore: la popolazione attiva. Con lo scivolamento dei babyboomer verso la pensione, con una quantità di nascite insufficiente, per mantenere intatto quel fattore, se non per vederlo crescere in salute, non resta che l’immigrazione. E a definire l’immigrazione, oggi, sono i bisogni economici. Lo stesso Oris suggerisce poi che è l’immigrazione a rendere le città attrattive per le aziende, il tutto all’interno di quello che diventa un circolo virtuoso, un climax che tende però, di conseguenza, a escludere altre componenti. È facile prevedere che il prossimo milione di abitanti della Svizzera - quello insomma che ci permetterà di arrivare a quota dieci - si concentrerà in gran parte nelle principali città, in aree che diventeranno sempre più urbane, sempre più alte e vaste, per quanto possibile. Ma non per forza più complesse.
Complesso sarà gestire l’equilibrio tra le metropoli e la provincia del Paese. Ma la responsabilità non sarà unicamente della Confederazione, bensì delle stesse realtà regionali e comunali e dell’economia, chiamate a muoversi nel quadro di una sempre più necessaria sostenibilità. Sollecitare riflessioni - non timori - in questo senso è sano, concretizzare soluzioni è doveroso.