L'intervista

«Si è celebrato l’inizio ufficiale di una seconda Guerra fredda»

Il professor Francesco Sisci, sinologo, ci aiuta a interpretare lo spettacolo messo in scena da Xi Jinping e dai suoi ospiti a Pechino
© AP/Andy Wong
Paolo Galli
03.09.2025 20:15

Professore, il discorso di Xi Jinping è partito da una domanda retorica - «Pace o guerra?» - che interpella il mondo tutto, e che suona però inquietante.
«Lo è, perché Xi Jinping sta dicendo al mondo che, pur non volendola, lui è pronto per la guerra. Un messaggio che riecheggia la locuzione latina Si vis pacem, para bellum, ovvero: Se vuoi la pace, prepara la guerra. Ma a rafforzare questo messaggio c’è anche dell’altro, ben rappresentato dalla materia stessa della sfilata: la Cina sta dicendo al mondo di avere una forza militare sui livelli di quella americana, quindi in grado di affrontare una sfida con gli Stati Uniti. Siamo insomma tornati alla prima Guerra fredda, quando le sfilate di Mosca erano dimostrazioni di potenza nei confronti di Washington. E quindi, riassumendo, si celebrano gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, ma anche l’inizio ufficiale della seconda Guerra fredda».

Il paradosso è che lo stesso Xi diceva di non volerci stare, alla logica da Guerra fredda.
«Un analista americano molto acuto, Da Wei, di origini cinesi, parla di “decoupling” psicologico nella relazione tra Stati Uniti e Cina, di disaccoppiamento quindi. Suggerisce che entrambe le parti, dall’inizio del secondo mandato presidenziale di Donald Trump, si stanno orientando verso un disimpegno strategico e psicologico, riducendo la reciproca dipendenza dalle strategie a lungo termine. Questa tendenza, dice, potrebbe anche ridurre gli incentivi al negoziato. Il fattore più importante, a mio modo di vedere, tra quelli emersi da queste giornate vissute con i riflettori sulla Cina, è che Pechino sta pensando a un futuro senza gli Stati Uniti. Ecco, forse però l’America non ha ancora davvero interiorizzato completamente di avere davanti a sé un futuro senza la Cina».

Ritiene ci sia una non corretta interpretazione, da parte occidentale, dei segnali da Pechino?
«Tutte le comunicazioni politiche sono fatte con un margine di ambiguità strategica. E questo vale anche per la comunicazione politica cinese. Ma anche per quella americana, non va dimenticato».

Si è detto molto di chi ha affiancato Xi Jinping durante la parata. Per l’occasione, non c’era Narendra Modi, però.
«Modi non c’era a Pechino, è vero. Era però a Tianjin per il vertice della SCO. La lettura di molti è quella dello schiaffo a Trump da parte di Modi per uno scontro personale. Non mi sembra ci sia però l’intenzione di Modi e dell’India di schiacciarsi alla Cina. Modi non era alla parata, e poi prima di andare a Tianjin era stato anche a Tokyo. Prima di discutere con Putin, aveva parlato con Zelensky. Quindi abbiamo diversi segnali che ci dicono che l’India non intende cambiare bandiera. Ha semplicemente, e pericolosamente, dato uno schiaffone a Trump. E Rubio, in questi giorni, ha ricordato l’importanza della relazione tra Stati Uniti e India. Lo stesso Trump pare abbia cercato Modi. Insomma, probabilmente ci si è resi conto dell’errore commesso. La politica cinese, dal canto suo, si conferma una politica “di rimessa”, con tentativi di approfittare degli errori altrui per trarne vantaggio. In questo caso specifico, sta agli Stati Uniti il dovere di non sbagliare più».

Vladimir Putin, invece, alla parata c’era, eccome.
«L’asse con cui bisogna fare i conti è quello formato da Cina, Russia e Nord Corea. Inutile illudersi di poter spaccare questo rapporto».

Ci sono stati molti momenti «virali» in questi giorni, dai passaggi in auto di Putin a Modi e Kim, al vestito di Xi. Quale l’ha colpita?
«Il conciliabolo messo in scena da Xi, Putin e Modi in occasione della SCO. Un forte segnale all’America, che per l’appunto cercava di strappare la Russia dall’abbraccio cinese, mentre invece vi ci ha spinto l’India. Un’immagine che l’Occidente farebbe bene a non sminuire, così come Trump non dovrebbe sottovalutare la portata del suo errore».