Per l’intesa finale con gli USA ci vorrà tempo, e restano ancora vari punti spinosi

La portata e l’ampiezza dell’intesa raggiunta venerdì tra Berna e Washington per abbassare i dazi statunitensi dal 39% al 15% potrebbe essere ben più importante rispetto a come è stata inizialmente descritta dalle autorità federali. In conferenza stampa, infatti, tanto si era parlato dei 200 miliardi di dollari di investimenti che alcune aziende elvetiche effettueranno negli USA nei prossimi 5 anni. E si era parlato dell’abolizione (o riduzione) di alcune tariffe doganali su una serie di prodotti provenienti dagli USA. Nel frattempo, però, la Casa Bianca – e in un secondo momento pure il Consiglio federale – ha pubblicato la dichiarazione d’intenti. Dalla quale, appunto, è emerso un quadro molto più complesso e politicamente spinoso rispetto a quello inizialmente descritto. L’accordo, insomma, è destinato a far discutere ancora parecchio tempo, perlomeno in Svizzera.
Dossier complessi
Nella dichiarazione d’intenti, dopo il capitolo dedicato agli investimenti e quello alle tariffe doganali, viene affrontata pure la questione delle cosiddette «barriere non tariffarie», ossia tutte quelle misure (tecniche, amministrative, ecc.) adottate per limitare le importazioni di determinati prodotti senza ricorrere direttamente a dazi. E tra queste, ad esempio, figura anche l’intenzione, per quanto riguarda il settore delle automobili, di collaborare con gli USA per facilitare il riconoscimento delle norme statunitensi in materia di sicurezza dei veicoli a motore («Federal Motor Vehicle Safety Standards»). Una facilitazione che, come rilevato dalla SonntagsZeitung, potrebbe significare che in futuro sulle strade svizzere vedremo circolare più pick-up statunitensi. E, forse, pure il «Cybertruck» della Tesla potrebbe venir autorizzato.
Sempre al capitolo «barriere non tariffarie», poi, si legge anche che «la Svizzera intende facilitare l’accettazione dei dispositivi medici autorizzati o approvati dalla ‘Food and Drug Administration’ statunitense». Insomma, anche qui si mira ad allentare le regole elvetiche, adottando almeno in parte quelle degli USA. Ciò, va da sé, per facilitare l’ingresso dei prodotti USA nel nostro mercato.
Il capitolo successivo, poi, tratta anche la questione del commercio digitale e della tecnologia. E nel primo punto si afferma chiaramente che «la Svizzera e il Liechtenstein intendono continuare ad astenersi dall’imporre tasse sui servizi digitali». Una misura che è facile immaginare sia stata voluta dagli USA per proteggere in particolare i suoi colossi del web.
Vi è poi un’altra questione spinosa: quella della ripresa delle sanzioni statunitensi. Parmelin venerdì aveva tenuto a precisare che la Svizzera non ha fatto alcuna concessione che possa compromettere la sua sovranità o neutralità. E che, pertanto, non adotterà automaticamente alcuna sanzione statunitense. Eppure, nella dichiarazione d’intenti si afferma chiaramente che «i partecipanti intendono rafforzare la cooperazione esistente in materia di controlli sulle esportazioni e sanzioni statunitensi».
Va infine pure segnalato che nel primo capitolo (quello relativo agli investimenti) si fa riferimento pure a un’altra questione ostica dal punto di vista elvetico: le sovvenzioni a industrie o a imprese statali. «La Svizzera e il Liechtenstein – si legge nel documento – intendono collaborare con gli Stati Uniti per affrontare le potenziali distorsioni del commercio bilaterale e degli investimenti derivanti da sovvenzioni industriali o azioni di imprese statali». Tema spinoso anche perché, va ricordato, più o meno negli stessi termini sta già facendo discutere pure in relazione al nuovo pacchetto di accordi bilaterali con l’UE.
Un percorso ancora lungo
Va infine sottolineato che il documento, allo stato attuale, rappresenta unicamente una dichiarazione d’intenti e che, come già precisato venerdì, non è in alcun modo vincolante sul piano legale. A questo punto, infatti, l’iter è lungi dall’essere concluso. Dapprima, la diplomazia elvetica e il Consiglio federale, assieme alla controparte americana, dovranno trasformare la dichiarazione d’intenti in un documento vincolante. Servirà, concretamente, ancora un secondo «round» di negoziati. E proprio in quel frangente, come riferito dalla NZZ am Sonntag, potrebbe venir discusso un altro dossier alquanto spinoso, ossia quello legato all’acquisto di armi. Non è escluso, ha scritto il domenicale zurighese citando fonti vicine al Consiglio federale, che la Svizzera faccia leva sull’acquisto di più sistemi Patriot o missili guidati per ingraziarsi la controparte statunitense nelle trattative.
Terminata questa ulteriore fase diplomatica, va da sé, dovrà iniziare tutto l’iter parlamentare in Svizzera. Una fase, anche questa, tutto fuorché scontata. Soprattutto alla luce dei numerosi dossier spinosi elencati prima. Senza dimenticare l’eventualità (nemmeno così remota) che qualche «ramo» delle trattative finisca alle urne popolari. Nel comunicato diffuso dalla Casa Bianca venerdì, va detto, si parla apertamente di concludere le trattative all’inizio del 2026. Ma conoscendo le tempistiche della politica elvetica tale traguardo appare oggi parecchio ottimista.
Certo è che – mentre la Casa Bianca ha definito «storico» l’accordo, con numerosi vantaggi per gli USA – in Svizzera il tema è destinato a far discutere parecchio, specialmente nei corridoi di Palazzo federale. Sui domenicali diversi deputati – specialmente a sinistra – si sono già mostrati critici. E c’è pure chi (si veda l’articolo sotto) non esita a parlare di una «sottomissione» nei confronti degli Stati Uniti. Secondo la NZZ am Sonntag, l’intesa ha avuto anche diversi «perdenti»: su tutti, il Consiglio federale (con in testa la presidente Karin Keller-Sutter) e le tradizionali strutture politiche e diplomatiche svizzere, sorpassate in grande stile da un gruppo di imprenditori. La domanda, d’altronde, è lecita: come è possibile che rappresentanti democraticamente eletti del Governo abbiano ottenuto meno risultati di una manciata di imprenditori?
Farinelli: «Un accordo di sottomissione» – Marchesi: «No, quello con l’UE lo è»
La dichiarazione d’intenti sottoscritta l’altro giorno negli Stati Uniti da Guy Parmelin è solo il primo passo di un processo che dovrà sfociare in un accordo commerciale vincolante. Dal testo in inglese pubblicato in seconda battuta anche sul sito della Confederazione, si evince che Washington potrebbe chiedere più di quanto comunicato dal Consiglio federale (cfr. articolo sopra). Non si sta festeggiando troppo in fretta? «L’intesa è stata confermata anche dalla controparte americana. Adesso bisogna consolidarla a livello di attuazione. Serviranno una decina di giorni. Il fatto che i dazi siano stati ridotti dal 39% al 15% è positivo. È quanto chiedevano l’economia e i partiti», dice il consigliere nazionale dell’UDC Piero Marchesi. «Si può discutere sulle contropartite, ma da quello che abbiamo potuto leggere queste contropartite non mi sembrano per nulla esagerate. Le trovo anche piuttosto bilanciate e coerenti nel quadro di una trattativa fra le parti. Tutti avremmo auspicato un ritorno alla situazione ante-dazi, ma credo che sia stata trovata una buona soluzione di compromesso». Marchesi non crede che ci saranno brutte sorprese e che la Confederazione finirà per rimetterci più di quanto concordato. Non crede nemmeno, quindi, che questo passo sia il preludio, per usare una terminologia UDC, di un «accordo di sottomissione» della Svizzera verso gli Stati Uniti. «Per vedere che cos’è un vero accordo di sottomissione», risponde Marchesi, «invito a leggere il pacchetto negoziato con l’UE, che prevede la ripresa del diritto europeo e i giudici stranieri. Nel caso dell’intesa con gli Stati Uniti, fino a prova del contrario, si tratta di un classico dare per avere. Le aziende svizzere investiranno negli USA non perché obbligate ma perché avranno un vantaggio. La Svizzera avrà dazi più bassi e potrà conservare posti di lavoro». «C’è ben poco da esultare» replica il collega del PLR Alex Farinelli. «Siamo partiti da una situazione in cui non c’erano dazi a un’altra nella quale, per quanto ne sappiamo, avremo tariffe al 15% e le nostre aziende dovranno investire in tre anni 200 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Questo vuol dire anche indebolire la nostra economia. Probabilmente dovremo fare anche altre concessioni. Il tutto, per trovarsi in una situazione peggiore rispetto a prima dell’elezione di Trump». Il deputato teme che con l’imprevedibilità dell’inquilino della Casa Bianca nulla può essere dato per acquisito. Un risultato c’è, ma il rischio, come detto, è che la Svizzera, per consolidarlo, debba fare altre concessioni. «Come si fa a escludere», afferma, «che nei prossimi tre anni Trump non voglia ottenere di più dalla Svizzera?» Inoltre, il consigliere nazionale ridimensiona una certa narrazione secondo cui tutto il merito dell’intesa è da ascrivere ai rappresentanti del mondo economico. Questi, dice, hanno avuto un ruolo, ma in realtà ai dazi si lavora da mesi. Gli USA ci guadagnano con l’accordo ed è quindi anche nel loro interesse concluderlo. Quanto alla natura di quest’ultimo, Farinelli non ha dubbi. «È assolutamente un accordo di sottomissione agli Stati Uniti, che hanno fatto valere la loro forza economica. La Svizzera si è piegata. Nella Realpolitik va bene, ma ricordiamoci che siamo in una situazione peggiore di quella di inizio anno. Attenzione quindi a usare certe narrazioni. Mentre con l’UE la Svizzera investiva 1 miliardo di franchi in dieci anni per progetti di coesione, ora Trump ci chiede di investire 200 miliardi di dollari in tre anni. Ciò dimostra che se non ci sono regole chiare, bisogna poi mettere sul tavolo sempre qualcosa».



