Pandemia

Testare i cinesi «non influirebbe sulla diffusione del COVID in Svizzera»

Il medico cantonale, Giorgio Merlani, concorda con le motivazioni del Consiglio federale che non richiede l'obbligo di test per i viaggiatori provenienti dalla Cina – «Ma dire che la "pandemia è finita" risulterebbe non corretto, dobbiamo uscirne tutti insieme»
© CdT/Gabriele Putzu
Jenny Covelli
11.01.2023 17:03

I viaggiatori provenienti dalla Cina non saranno obbligati a presentare il risultato di un test negativo né saranno sottoposti al tampone in aeroporto. Lo ha deciso il Consiglio federale, dopo avere esaminato le raccomandazioni dell’UE. Le varianti Omicron che circolano nel Paese asiatico presentano attualmente un rischio basso per la popolazione e il sistema sanitario della Svizzera. Cosa ne pensa il Ticino? «Al di là del fatto che non spetta a me giudicare le decisioni politiche, penso che Berna abbia motivato la sua decisione», spiega il medico cantonale, il dottor Giorgio Merlani. La circolazione del virus è attualmente così elevata in Svizzera che l’obbligo di test per un numero piuttosto esiguo di persone che arrivano dalla Cina in aereo non avrebbe pressoché alcun influsso sulla diffusione. «Si parla di pandemia quando un virus nuovo colpisce una popolazione "vergine". Ora siamo in contatto con il virus da un paio di anni e, in caso di contagio, per la maggior parte delle persone il decorso non è grave. Se su un aereo con 500 passeggeri, il 20% è positivo al COVID-19, non farà la differenza su una popolazione di 8 milioni». Inoltre, le varianti attualmente in circolazione in Cina sono varianti Omicron già largamente diffuse o nuovamente in regressione in Svizzera e il rischio che ne compaiano delle nuove non è maggiore che altrove. «Non bisogna demonizzare lo straniero».

A tal proposito, il virologo tedesco Thomas Mertens ha affermato che non sussistono più gli elementi in base ai quali si possa parlare di pandemia. In un'intervista al Corriere della Sera ha precisato che la situazione è ormai endemica, il virus è cioè presente e crea infezioni, ma esiste una certa immunità di base costruita grazie alla vaccinazione e all’infezione contratta naturalmente. «Di definizioni si potrebbe parlare all'infinito, ma la comunicazione è importante - prosegue il medico cantonale -. I contagi e i ricoveri per COVID-19 non fanno (ancora) parte dell'ordinario. Non siamo nelle condizioni, per citare frasi già sentite in passato, di parlare di "un semplice raffreddore"». Si potrebbe forse parlare di una fase di transizione. Ma dire che la «pandemia è finita» risulterebbe non corretto. «In questi tre anni abbiamo imparato che così come siamo entrati in questa difficile situazione tutti insieme, dobbiamo anche uscirne tutti insieme. Non possiamo dire di essere fuori dalla pandemia finché non lo saremo tutti. Magari in Svizzera è endemica, ma basta guardare alla Cina per rendersi conto che non è così ovunque. Per non parlare di molti Paesi africani. La pandemia è un concetto mondiale, globale».

Alla popolazione bisogna parlare nel modo giusto, dunque. Anche perché dare messaggi discordanti in breve tempo è tutto fuorché efficace. «Durante il periodo natalizio gli ospedali della Svizzera romanda erano sovraccarichi e i pronto soccorso sono in allarme. Neuchâtel ha annunciato l'adozione di un decreto urgente per bloccare le vacanze ai medici. Non si può parlare di stabilizzazione della situazione» in queste condizioni, anche se oltre al coronavirus hanno contribuito influenza e bronchiolite e soprattutto le assenze per malattia del personale.

Ma, attualmente, ha ancora senso diffondere i dati relativi ai contagi in Ticino e in Svizzera? Il 14 dicembre nel nostro cantone sono stati segnalati 1.211 nuove infezioni, il 21 dicembre 1.052, il 28 dicembre 721, il 4 gennaio 551 e oggi 184. Si è passati da «una diminuita propensione a effettuare un test» alla «diversa modalità e finanziamento dei test» non più presi a carico dalla Confederazione dal 1. gennaio. Per cui la gente tende a non sottoporsi più al tampone in caso di sintomi. «L'Ufficio del medico cantonale si è posto la domanda - conferma Merlani -. Così come la Conferenza svizzera dei direttori della sanità pubblica. Io credo nell'ottica della trasparenza e ritengo che i dati debbano essere messi a disposizione della popolazione. Precisando, ovviamente, che la modalità è diversa e che non sono paragonabili a quelli del passato. Però sono utili anche per vedere le future evoluzioni. In fondo non abbiamo nulla da nascondere».

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