Mario Mantegazza: «L’acquisizione del Sass Café non è solo business, certi luoghi sono parte di noi»

«Ci sono treni che passano una volta sola. E quando passano, ci sali». Mario Mantegazza lo dice sorridendo, come se quel treno lo avesse visto arrivare da lontano. Nelle settimane successive alla riapertura del Federale 1855 e del Meta, quando tutto lasciava pensare a una fase di consolidamento, è stato proprio Guido Sassi a cercarlo. «Mi ha chiamato, mi ha detto che voleva parlarmi. Ci siamo seduti, mi ha spiegato la sua situazione e il desiderio di lasciare il Sass Café nelle mani giuste. È stato lì che ho capito che non si trattava di una semplice opportunità commerciale, ma di un gesto di fiducia». Nel giro di poche settimane, l’accordo era pronto, con il Sass Café che passa — anzi torna — nelle mani della famiglia Mantegazza: «L’occasione si è presentata, e non aveva senso lasciarla andare».
A convincerlo, però, non è stato il business. «Guido mi ha coinvolto con una trasparenza rara. Era importante per lui lasciare il locale a un luganese che potesse garantirne continuità e identità. Il Sass funziona talmente bene che non avrebbe senso toccarlo. Squadra che vince non si cambia. Prima ci occupiamo dell’avvio definitivo del Federale e del Meta, poi ragioneremo su eventuali sinergie. Ma l’idea è chiara: preservare».
La dimensione personale è evidente. «Quella parte di Piazza Riforma è la mia infanzia», racconta. «Da bambino stavo più al Federale, da adolescente al Piccolo Federale. E il Sass Café era la destinazione della domenica con la mia famiglia». Ed è qui che la storia si allarga: non è soltanto un nuovo ristorante che entra nel gruppo, ma un intero pezzo di piazza che torna sotto lo stesso tetto, almeno idealmente. «Il palazzo del Federale e quello del Sass erano un tempo il cuore dell’attività di mio nonno Vittorio Vanini e di suo fratello Sandro. Oggi non parliamo più di proprietà — Vanini non è più nostro da anni — ma tornare lì dentro è come chiudere un cerchio. È un rientro simbolico di famiglia, un ritorno alle radici che abbiamo respirato per generazioni».
«Lugano accoglie energie da tutto il mondo, ed è una fortuna. Ma certi luoghi devono restare sacri ai luganesi, anche a quelli d’adozione, che qui hanno trovato una casa e spesso la difendono più di noi – spiega l’imprenditore –. La piazza deve tornare a essere un salotto, un punto d’incontro reale, non un contenitore per qualsiasi iniziativa». Da qui l’appello: «Servirebbero strutture più sicure e più belle, omogenee, che proteggano clienti e personale nelle giornate di vento o pioggia improvvisa. Non perché siamo arrivati noi, ma perché la scena gastronomica cittadina sta crescendo e il turismo culturale oggi passa anche attraverso la tavola. Siamo una delle città con la più alta concentrazione di stelle Michelin in Europa, dobbiamo sfruttare questo asset».
E i prossimi passi? «L’infinito – ride –. Le opportunità nascono, noi ci facciamo trovare pronti. Il sogno? Creare un’identità gastronomica forte, esportabile fuori dal Cantone e anche dal Paese. Alla fine si tratta di prendersi cura dei luoghi che ci hanno fatto crescere. E Lugano, per chi la vive davvero, merita esattamente questo».


