Processo alla radiologa, altri colpi di scena

«Quell’esame non l’ho fatto io», ha detto oggi in aula la tecnica di laboratorio convocata dal giudice Siro Quadri in quanto persona indicata dall’imputata quale autrice proprio di quell’esame. È stato questo il nuovo colpo di scena nel processo a carico di una radiologa allora attiva alla Clinica Moncucco e accusata di lesioni colpose gravi per non aver diagnosticato un tumore al seno a una sua paziente nel 2019, quando lavorava alla Clinica Moncucco (lei per contro si professa innocente, sostenendo di non aver violato l’arte medica). E non è stato l’unico, in quanto poco dopo, durante una nuova audizione della perita, quest’ultima ha sostenuto tra l’altro che non vi è stato nessun errore medico e che forse avrebbe agito come la dottoressa imputata se avesse avuto le sue stesse informazioni: «C’è una zona di grigi e noi siamo in questa zona di grigi». Affermazioni che parrebbero contraddire quanto da lei stessa sostenuto in perizia. Il tutto nell’ormai consueto - per questo caso - clima teso, al limite del livoroso, tra le parti, il procuratore pubblico Zaccaria Akbas, l’avvocato Renzo Galfetti, patrocinatore della vittima, e l’avvocato Filippo Ferrari, legale dell’imputata. La radiologa, per contro, ha risposto con garbo alle domande che le sono state rivolte.
Le puntate precedenti
Inquadriamo meglio la vicenda (per maggiori dettagli si vedano i suggeriti). La radiologa è sostanzialmente accusata di non aver riconosciuto, nel 2019 un tumore nelle mammografie e nell’ecografia fatta alla presunta vittima (tumore poi diagnosticato un anno dopo), o quantomeno gli indizi che vi fosse un tumore, omettendo quindi di ordinare un approfondimento a pochi mesi di distanza. Per questo il procuratore Akbas ha proposto una pena pecuniaria sospesa da 120 aliquote, a cui la donna si è opposta. A metà ottobre il processo era stato rinviato perché l’imputata era assente giustificata, mentre lo scorso 9 novembre la dottoressa aveva rivelato in aula (fino a lì, come peraltro suo diritto, si era avvalsa della facoltà di non rispondere) di non aver visto l’esame che rivelava l’esistenza del tumore (una mammografia in 3D, detta tomosintesi) perché non l’aveva ordinato e il tecnico di laboratorio l’aveva in sostanza fatto a sua insaputa. Da cui la decisione della Corte, datata 24 novembre, di chiedere un complemento d’inchiesta, cosa che ha riportato tutti in aula ieri.
La persona «in parte sbagliata»
Peccato che alla sbarra sia comparsa la testimone «in parte sbagliata» (citiamo il giudice Quadri). Cosa che ha lasciato per qualche secondo sbigottiti i presenti - il nome della tecnica di laboratorio era stato fatto dalla dottoressa stessa - ma non l’avvocato Ferrari, il quale per strategia difensiva ha deciso di non rivelare in anticipo quanto la tecnica avrebbe detto, ossia che non era stata lei ad effettuare le mammografie, bensì un’altra persona. Cosa che aveva riferito all’imputata la tecnica stessa, sollecitata telefonicamente al riguardo dalla radiologa proprio il 24 novembre, ancor prima che venisse formalmente citata dalla Corte.
Testimone «in parte sbagliata» in quanto la dottoressa comunque sostiene di aver lasciato detto a lei di fare l’esame alla presunta vittima senza la tomografia. E in quanto la tecnica ha comunque spiegato in generale, a suo dire, la prassi in vigore in clinica. Il procuratore Akbas ha poi chiesto di sentire quale testimone anche la persona che avrebbe fatto concretamente l’esame, ma la Corte ha deciso di avere abbastanza elementi per emettere una sentenza, che verrà comunicata fra tre giorni, giovedì mattina.
Il nesso causale
Quanto alle nuove dichiarazioni della perita - la quale ha detto che, senza avere a disposizione la tomosintesi, avrebbe in sostanza agito come l’imputata - il procuratore Akbas e l’avvocato Galfetti hanno sostenuto che in ogni caso la radiologa doveva aver visto la tomosintesi, o comunque sapere della sua esistenza. E dunque doveva rendersi conto che servivano quantomeno esami più approfonditi. L’avvocato Ferrari ha invece sostenuto che la donna non sapesse dell’esistenza della tomosintesi e che in ogni caso questa «prova regina» poteva anche restare irrisolta. Secondo il legale non vi sarebbe infatti un nesso causale fra la presunta mancata diagnosi nel 2019 e l’altrettanto presunto ritardo nel curare la paziente (che è sopravvissuta al tumore).