Ticino Vivo, quando l’insicurezza rischia di sfociare nella giustizia fai-da-te

Il comunicato diffuso dal gruppo Ticino Vivo a seguito dell’aggressione di un ragazzo di 19 anni a Lugano lo scorso 1. agosto rappresenta, più che una semplice dichiarazione di intenti, una fotografia nitida dello stato emotivo e politico di una parte della società ticinese. Il gruppo ha annunciato l’inizio di ronde volontarie serali, presentate come iniziative di «protezione» dei cittadini. Un gesto che, pur mascherato da spirito civico, rivela una tendenza più profonda e inquietante: quella della giustizia fai-da-te, e della strumentalizzazione della paura come leva politica.
L’intenzione dichiarata è apparentemente nobile: voler garantire sicurezza e protezione dove le istituzioni sembrano faticare ad arrivare. Ma sotto la superficie, le contraddizioni sono evidenti e le implicazioni sociali, culturali e politiche molto più gravi di quanto i toni rassicuranti del comunicato possano far credere.
Ticino Vivo non nasconde la propria ispirazione politica. «Siamo di destra», affermano, e sui social spiegano: «Essere di destra significa preservare i valori, le tradizioni, la neutralità, migrazione controllata, rispetto per l’ambiente, espulsione dei migranti illegali». A questa descrizione si aggiunge un disprezzo costante verso «la sinistra oppressiva», la «cultura woke», «l’eccesiva enfasi mediatica della comunità LGBTQ+» e l’idea che l’identità svizzera stia scomparendo.
La loro partecipazione a summit sulla remigrazione – termine che evoca meccanismi di espulsione e controllo etnico – li colloca in continuità con l’estrema destra europea, anche quando respingono formalmente ogni accusa di estremismo.
Ne emerge una visione del mondo rigida ed escludente, che intreccia nazionalismo culturale, conservatorismo sociale e una sottile, ma persistente, xenofobia. Non si tratta semplicemente di «difendere» dei valori, ma di usarli come linee di confine ideologico, tracciando una netta distinzione tra chi appartiene e chi deve essere escluso dalla comunità.
Dietro il linguaggio della «protezione» si cela una dinamica più pericolosa: l’appropriazione della legittimità dell’azione pubblica da parte del privato. Quando gruppi non scelti, non formati, e motivati da una prospettiva valoriale radicale si organizzano per pattugliare lo spazio pubblico, siamo di fronte a una sostituzione simbolica dello Stato.
Il rischio è evidente: l’autorità si trasforma in militanza e la giustizia in arbitrio. Le ronde non sono un gesto neutro. Sono la conseguenza della percezione di svuotamento dello spazio istituzionale, avvertito come incapace di garantire sicurezza e coesione. In questo vuoto si inseriscono attori che offrono risposte semplici e nette, che spesso diventano rassicuranti proprio perché autoritarie.
Il pericolo maggiore non è l’aggressione fisica – che pure è un rischio reale quando si alleano giovani con l’idea che il nemico sia l’altro – ma l’affermazione di una cultura politica in cui l’ideologia diventa strumento di legittimazione dell’intervento privato nella vita pubblica collettiva.
Di fronte a tutto questo, non ci si può limitare alla condanna o alla derisione. Fare ironia su questi gruppi o liquidarli come fanatici è una risposta speculare alla loro: si giudica il sintomo senza interrogarsi sulle cause. La verità è che la loro retorica poggia su un disagio reale. Paura, smarrimento, senso di abbandono, richiesta di protezione: sono sentimenti diffusi in una società che cambia, spesso senza strumenti per interpretare tale cambiamento.
In un momento storico segnato da crisi economiche, instabilità geopolitica e flussi migratori complessi, è fisiologico che crescano tensioni e incertezze. Ed è proprio in questi vuoti di senso e di sicurezza che movimenti di destra trovano terreno fertile. Tendono a intercettare le paure più istintive e profonde – non ancora elaborate, non ancora razionalizzate – proponendosi come risposta rassicurante e protettiva. È una dinamica già vista: la destra si afferma con più forza proprio nei momenti di crisi e di fragilità collettiva, offrendo un’illusione di ordine e appartenenza, mentre in realtà alimenta esclusione e polarizzazione.
Ticino Vivo, in questo quadro, non è solo il sintomo di un disagio individuale, ma l’espressione, organizzata, di un malessere sociale più ampio che si sta politicizzando a destra. Comprendere questo processo è il primo passo per contrastarlo in modo efficace, senza cadere nella trappola delle semplificazioni.