La difficile arte del silenzio

Raffaella Castagnola
14.08.2014 06:00

di RAFFAELLA CASTAGNOLA - I silenzi possono essere eloquenti quanto le parole, quando mettono in evidenza ciò che precede e ciò che viene dopo. Lo sanno bene alcuni scrittori che riflettono a lungo sui testi, cercando la chiarezza per sottrazione. Chi è pratico di filologia conosce la grande differenza tra chi si muove per accumulo di idee e di metafore e chi, al contrario, le muta, le stravolge, le riduce e infine le isola. Giuseppe Ungaretti è stato uno di questi: ha cercato l'essenza delle immagini ed è giunto alla celebrazione della parola, ma anche del silenzio. Lo ha consacrato persino attraverso gli spazi bianchi, quegli spazi che fino a lui la metrica considerava semplicemente d'obbligo, tra quartina e quartina di un sonetto, o terzina e terzina. Vuoti che invece il poeta ha saputo trasformare in momenti importanti di riflessione: spazi bianchi, pause tra un lemma e l'altro, che mettevano in risalto le espressioni collocate in prossimità della pausa. Quel bianco che diviene significativo ha del resto una sua lunga tradizione non solo letteraria: basta pensare alle prediche di maestro Eckhard e alla speculazione mistica medievale. Ma l'uomo che celebra l'atto contemplativo e che misura di conseguenza le parole, le centellina, le calibra, le pesa è una conquista anche della scrittura contemporanea. Se volessimo fare un esempio a noi vicino potremmo prendere le sintetiche prose di Fleur Jaeggy, svizzera di origine, considerata una delle figure importanti della nostra contemporaneità, che nei suoi testi brevi, idealmente tendenti al nulla, propone vite esemplari e congetturali. Proprio con le sue frasi ridotte all'osso la scrittrice sa porgere all'attenzione dei suoi lettori temi inquietanti relativi all'infanzia, ai rapporti familiari, al sottile confine tra privato e pubblico. Le sue prose sono «in levare», sono una continua sfida alla perfezione, mai raggiungibile. Se dunque è già difficile far parlare un testo attraverso le sue pause, gli spazi non coperti dalle lettere, le punteggiature inesistenti, ancora più complesso è allestire un film sul silenzio, come ha fatto Jean-Pierre Améris, che al Festival del cinema di Locarno ha proposto la storia di Marie Heurtin, una ragazza cieca e sordomuta. Grazie alle attenzioni di una suora, Marie apprende il linguaggio sintetico dei segni. Il film finisce per farci capire che la comunicazione non è fatta solo di espressioni, ma anche di cose semplicemente percepite e condivise. Questo lavoro, che la critica cinematografica e il pubblico giudicheranno nell'insieme delle altre proposte della rassegna, si presta tuttavia benissimo ad una riflessione sul peso delle parole. Marie Heurtin offre un messaggio di speranza a chi non vede, non sente, non parla, ma sollecita anche – attraverso il suo uso parco e selezionato del linguaggio, come attraverso i suoi prolungati silenzi – a non abusare delle parole. In questi giorni di polemica abbiamo invece sentito e letto di tutto: sono volate parole forti e gravi non sempre soppesate. Si è parlato persino di viltà, riferito ora a Polanski, ora al direttore artistico del Festival, ora al suo presidente. Ma vili sono quelli che Dante pone all'Inferno proprio perché non si sono mai schierati. In verità il direttore artistico e il presidente del Festival hanno detto la loro, difendendo scelte e strategie, mentre il regista si è apertamente dichiarato rispettoso delle opinioni a lui contrarie. Dunque di viltà non si può parlare. Altre sono le parole in gioco: si deve riflettere – ma non durante lo svolgimento di un festival che ci dà lustro internazionale – sul rapporto tra sponsorizzazioni e direzioni artistiche, perché il problema non riguarda solo la rassegna di Locarno ma anche altre manifestazioni e forme di cultura (arte ed editoria, per fare solo due esempi). Queste sono le due parole da mettere in evidenza oggi. Mancano pochi giorni alla chiusura del Festival: dunque guardiamo i film concorso o quelli che hanno già segnato la nostra storia culturale. Per ora: «silenzio, ciak si gira». Poi, a Festival concluso, apriamo un confronto rispettoso sui temi (e le parole) che toccano ogni manifestazione culturale di carattere nazionale e internazionale e che sono: libertà artistica, programmazione, utilizzazione del denaro pubblico, sponsorizzazioni. Prima di ripartire per la prossima edizione.