Il commento

Lula o Bolsonaro? Una scelta nazionale per un problema mondiale

Si avvicina la resa dei conti fra i due: chi guiderà il Brasile nei prossimi anni? La scelta potrebbe avere ricadute locali e globali: il futuro dell'Amazzonia riguarda tutti noi
Giacomo Butti
13.09.2022 18:08

Un bivio. A meno di un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali, il popolo brasiliano si ritrova fra le mani una decisione importante da compiere. Quale strada imboccare? Che candidato scegliere? Da una parte lo sfidante di sinistra, il già presidente (2003-2011) Luiz Inácio «Lula» da Silva, attualmente in testa ai sondaggi. Dall'altra il leader di estrema destra, al momento alla guida dello Stato sudamericano, Jair Bolsonaro. Mentre la corsa alle redini del Brasile si avvicina sempre più alle fasi finali, appare ormai evidente come lo scontro tra i due possa rappresentare un momento decisivo per la storia del Paese, per le future politiche interne ed estere, per il mondo intero. È innegabile: similmente a quanto registrato due anni fa dalle parti di Washington, la battaglia in corso a Brasilia sta dimostrando di saper polarizzare in maniera eccezionale l'opinione pubblica, con annesse tensioni e violenze. E mentre i candidati si presentano ai comizi con giubbotto antiproiettile o una folta scorta (resi ancora più cauti anche dall'attentato, una decina di giorni giorni fa, ai danni della vicepresidente argentina Cristina Kirchner), nelle strade brasiliane la sfida elettorale si è trasposta in risse, accoltellamenti e sparatorie fra chi vuole ancora Bolsonaro al potere e chi invece sostiene Lula.

Ancora forte del sostegno delle classi più abbienti, secondo sondaggi effettuati dall'istituto Datafolha, Bolsonaro è attualmente inviso agli strati sociali più poveri e alla popolazione femminile. E a ragion veduta. Dopo aver drasticamente ridotto la spesa per la salute, insieme a quella per l'istruzione, l'esponente di estrema destra si è trovato a fare i conti con la COVID-19. E l'incompetenza dimostrata nella gestione della crisi sanitaria (per la quale è al momento indagato con diverse accuse, fra le quali anche quella di crimini contro l'umanità) ha portato il Brasile a occupare il terzo posto per numero di casi annoverati e il secondo per decessi, registrati perlopiù nelle fasce più vulnerabili e già in stato d'indigenza. Al centro, inoltre, di numerose critiche per commenti e atteggiamenti razzisti, misogini e omofobi, l'attuale presidente brasiliano ha spesso sostenuto pubblicamente la dittatura militare al potere in Brasile fra il 1964 e il 1985. Celebre la sua insofferenza nei confronti dei desaparecidos e delle loro famiglie, tanto che si vocifera sulle porta del suo ufficio parlamentare campeggiasse la scritta: «Chi cerca le ossa è un cane». Tutto ciò, sommato all'incapacità di controllare l'inflazione i cui tassi annuali sembrano destinati a stabilizzarsi attorno al 10-12% (contro il 3-4% registrato negli anni immediatamente precedenti la sua presidenza), è più che abbastanza per farsi odiare da buona parte della popolazione: sempre secondo i dati di Datafolha, il 55% degli elettori non lo voterebbe «per nessuna ragione».

Per questo, dicevamo, Bolsonaro si trova al momento a rincorrere. Dopo i grandi eventi organizzati in occasione del Bicentenario dell'Indipendenza, il 67.enne ha guadagnato due punti percentuali, portandosi al 35% delle intenzioni di voto, contro il 41% attualmente a favore di Lula. Quest'ultimo, ex sindacalista tra i fondatori del Partido dos Trabalhadores (PT, Partito dei Lavoratori), si trova al momento sulla cresta dell'onda. Caduto in disgrazia insieme al suo schieramento per l'ampio sistema di tangenti venuto alla luce con l'Operação Lava Jato, Lula è infatti tornato a correre e lo ha fatto a capo di un'ampia alleanza che raggruppa partiti di sinistra e centro-destra. Accusato nel 2016 di aver accettato favori e denaro da Petrobras (compagnia petrolifera statale brasiliana) e altre aziende, Lula era stato condannato nel 2017, in secondo grado, a 12 anni per corruzione e riciclaggio. Una condanna penale non definitiva che gli aveva però impedito di sfidare Bolsonaro già nel 2018. Scarcerato dopo 580 giorni su decisione della Corte suprema, Lula ha dovuto attendere il 2021 per essere prosciolto da ogni accusa e per tornare eleggibile.

Arriviamo allora al dunque. In ottobre i brasiliani si troveranno di fronte al già citato bivio. Cosa sperare? Da osservatori esterni, verrebbe da pensare che l'attenzione vada data a due tematiche in particolare. Un occhio alle conseguenze che un'elezione così importante e carica di tensioni potrà avere a livello locale, l'altro al Polmone verde del pianeta, l'Amazzonia.

Andiamo con ordine. A Brasilia v'è preoccupazione: il processo elettorale verrà rispettato? Grande estimatore di Trump, Bolsonaro sembra in questo momento di difficoltà voler prendere spunto dalle vicende del tycoon. E lo fa mettendo le mani avanti, promettendo forti resistenze nell'accettazione del risultato delle urne. La scusante? Ancora, come a Washington, il voto a distanza, fonte di timori riguardanti fantomatici brogli elettorali. «Se non vinco saranno guai», sembra dire il 67.enne. Che il copione seguito negli Stati Uniti, il "gran rifiuto" di Trump di concedere la vittoria all'avversario, l'incitamento alle rivolte e le conseguenti violenze alla sede del parlamento, sia destinato a essere reinterpretato in salsa brasiliana, e in scala forse più ampia? In un continente dove, storicamente, l'instabilità politica è di casa, sembra quasi che il fantasma statunitense sia tornato a interferire con la (ancora) fragile democrazia locale, questa volta senza un'apposita operazione (nessun Condor in vista) ma tramite il semplice "cattivo esempio".

Ma sul risultato dell'elezione pende anche una tematica d'interesse mondiale: il futuro dell'Amazzonia. In passato, dopo anni di deforestazione incontrollata, con il PT al potere le cose erano migliorate. Nonostante le misure verdi di Lula non abbiano ai suoi tempi fatto l'unanimità, sotto la sua guida l'IBAMA, la polizia brasiliana assegnata alla protezione dell'Amazzonia, era cresciuta e divenuta finalmente in grado di far rispettare la propria autorità grazie anche all'introduzione di nuove multe per chi violava le leggi forestali. Dai due picchi di 29 mila e 28 mila chilometri quadrati di area disboscata toccati nel 1995 e nel 2004, con Lula alla presidenza la deforestazione è calata in modo costante fino al termine del suo secondo mandato (con il minimo di 4.500 chilometri quadrati toccati nel 2012). Stabilizzatosi sotto l'egida della sua delfina, Dilma Rousseff, il fenomeno è tornato a peggiorare, e gravemente, con l'ascesa di Bolsonaro, che dopo aver tagliato i fondi all'IBAMA ha permesso alla deforestazione di toccare nuovamente i 13 mila chilometri quadrati nel 2021 (il massimo da 13 anni a questa parte). Vicino, vicinissimo, ai grandi agricoltori e allevatori, amanti della deforestazione, Bolsonaro ha negli ultimi mesi promesso un'inversione di marcia, con l'uso di green bond e l'arruolamento, ad esempio, di 6.000 nuovi pompieri per contrastare i frequenti incendi. Gli analisti, però, dubitano che il leader voglia davvero passare dalle parole ai fatti. Lula, benché amico del petrolio (tra i programmi in caso di elezione v'è anche l'aumento della produzione e dell'esportazione), offre insomma migliori garanzie climatiche, specialmente dopo l'annuncio ieri di una nuova alleanza con Marina Silva, politica che aveva ricoperto sotto la sua presidenza il ruolo di ministra dell'Ambiente, e che se ne era andata nel 2008 dopo averlo accusato di essere più attento alla conquista dei mercati stranieri che alla protezione del patrimonio naturale brasiliano. Che il risanamento dei rapporti fra Lula e l'attenta ambientalista sia un segno di rinnovato impegno a favore dell'Amazzonia e nella lotta al cambiamento climatico?

Dita incrociate. Con un po' di egoismo, non possiamo che sperare che la scelta dei brasiliani dia una risposta non solo ai problemi locali, ma anche a uno mondiale, quello climatico. Il futuro dell'Amazzonia riguarda tutti noi.