L'editoriale

Capitale svizzera della Cultura, l’occasione per capire cosa fare da grandi

Lugano, infine, ha rotto gli indugi candidandosi per il 2030: certo, il percorso sarà molto lungo ma salutiamo il processo con ottimismo e fiducia
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
06.10.2025 06:00

La prima sarà La Chaux-de-fonds. La mecca neocastellana dell’orologeria, peraltro già da tempo inserita nel patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, nel 2027, potrà fregiarsi del neonato titolo di capitale svizzera della Cultura. Un concetto che, se ci suona famigliare perché lo abbiamo assimilato a livello continentale dove esiste dal 1985 o delle nazioni europee che ci sono vicine, in ambito svizzero è una novità ancora tutta da scoprire, nei contenuti, nelle conseguenze e nelle implicazioni di ogni genere. Anche perché, forse, ci avremo presto a che fare molto da vicino visto che, come anticipato ieri da La Domenica, Lugano ha rotto gli indugi candidandosi a «Capitale Culturale Svizzera» per il 2030.

Certo il percorso sarà ancora molto lungo, la selezione si annuncia severa, combattuta e sofferta e soltanto nel giugno dell’anno prossimo ne conosceremo gli esiti e i primi, eventuali, contenuti. Eppure, qualche considerazione è possibile azzardarla sin d’ora. Diciamo subito che per chiunque abbia a cuore la Cultura la semplice scelta di provare a intraprendere questo processo è da salutare con ottimismo e fiducia, pur restando consapevoli che tra il profluvio di verbose, e presto powerpointizzate, buone intenzioni, e qualche risultato concreto il lavoro da fare rimane grandissimo. Non soltanto sul piano pratico e materiale ma anche e soprattutto a livello concettuale e ideale, nella capacità di convincere i cittadini dell’autentico significato e del valore di una candidatura di questo genere. Se c’è qualcosa che le esperienze altrui ci hanno insegnato è senz’altro che il ruolo di capitale culturale, a livello nazionale o internazionale, per non rimanere una vuota etichetta o al massimo uno specchietto per le allodole di un turismo effimero e superficiale, è che il suo successo, come sempre quando si parla di Cultura, non si potrà misurare soltanto a livello economico e di numeri (di presenze, di progetti, di mostre, ecc. ecc.) quanto piuttosto di reale penetrazione nell’identità di un luogo, delle persone che ci vivono e di coloro che lo scoprono.

Di sicuro nel caso di Lugano, che scende in campo con il sostegno di Mendrisio (che vuol dire architettura) e di Locarno (che vuol dire cinema) non può non lasciare perplessi la rivalità con Bellinzona che in maniera piuttosto sconcertante, rebus sic stantibus, sarà a sua volta candidata da sola in una volata cui partecipano anche Aarau, Sciaffusa e Thun (il concorso è riservato a città con almeno ventimila abitanti o a reti di città). Ora, a voler essere ottimisti a oltranza, ci si potrebbe rallegrare che il nostro minuscolo fazzoletto di terra abbia la forza «culturale» di presentarsi divisa con ben due candidature su cinque. Un pochino di sano realismo invece, nonostante tutte le opportune prudenze e le mille giustificazioni già anticipate dai politici coinvolti, fa venire in mente, fatte le debite proporzioni, la storica e lacerante disputa ottocentesca sulla designazione della capitale cantonale. Ma vedremo come la prenderà la giuria di esperti incaricata di valutare le singole candidature. Comunque vada, anche in caso di bocciatura finale, l’auspicio è che a prevalere non siano le miopi strategie di marketing pseudoculturale o i guru del «tutto è cultura» (quindi niente lo è…) che tanti danni hanno già fatto dalle nostre parti. In un Paese, confuso, frammentato dalle mille iperboli e dalle troppe eccellenze, spesso in grottesca antitesi tra loro, perché si possa fare qualcosa (magari, anzi meglio, poche, ma chiare) semplicemente «bene», credendoci e con un’unità di intenti partecipata e condivisa da tutta la società, questa scelta, anche simbolica, indubitabilmente a favore della Cultura potrebbe diventare l’occasione per capire finalmente cosa fare, con successo, da grandi.