Dal Festival della canzone a quello di TikTok
Credo che bisognerebbe smettere di chiamarlo «Festival della canzone italiana di Sanremo». Perché quello che si è concluso nelle prime ore di domenica dopo una maratona lunga una settimana con la vittoria (a sorpresa?) della giovanissima figlia d’arte Angelina Mango, è ormai tutto tranne che una rassegna musical-canora. Quello che il direttore artistico-conduttore-animatore Amedeo Sebastiani, in arte Amadeus, ha infatti messo in scena per il quinto anno consecutivo con un nuovo record di pubblico e di audience televisiva in Italia, è infatti qualcosa di totalmente diverso dai festival così come siamo abituati a considerarli. È un colossale Moloch multimediale che, attraverso una rivoluzione dell’impostazione e nella gestione a tratti anche irrispettosa nei confronti della storia della rassegna, si stacca completamente dal passato, proiettandosi in un futuro in cui la televisione è solo uno dei tanti medium coinvolti nell’operazione e dove la canzone - intesa come arte musicale, pur leggera, ma comunque arte - è messa in secondo se non addirittura in terzo piano rispetto all’audience, al consenso popolare. Che non è più, però, né quello del piccolo schermo né del mondo musicale «tradizionale» bensì quello dei cellulari e delle piattaforme «sociali». Di Tik Tok, soprattutto, il social media attualmente più «à la page» che ha rivoluzionato la comunicazione, tra le giovani generazioni, riducendola ad un qualcosa di istintivo, immediato, basato più sull’apparenza e sulle sensazioni istantanee che sulla sostanza. E tutto, nel Festival di Sanremo 2024, riconduceva alla «formula Tik Tok»: la scelta dei partecipanti effettuata in massima parte non in base al curriculum artistico ma alla loro popolarità «social»; le canzoni costruite tutte in modo molto simile attraverso schemi tesi a sfruttare al massimo le dinamiche della piattaforma; la gestione della maggioranza degli interventi, sia degli ospiti sia dei presentatori, e gli sketch orchestrati in maniera da essere facilmente sfruttabili via internet (sintomatico quello con John Travolta, definito - ridendo - dagli stessi conduttori spazzatura e che rimanda a certi video in Rete in cui i protagonisti si vantano di aver fatto delle porcherie). Idem per quanto riguarda la dinamica delle cinque serate talmente lunghe e stiracchiate che pochi hanno avuto il tempo (o la forza) di seguire dal primo all’ultimo minuto e che è sembrato siano state costruite in tal modo proprio per rimandare ai «social» per sapere come andavano a finire e quali erano stati i loro momenti topici. Finanche il sistema di votazioni, modificato in maniera tale da essere oggetto di mille illazioni e dunque pronto ad essere gettato in pasto ai «leoni da tastiera» - cosa puntualmente avvenuta dopo i controversi risultati finali. Il Festival di Sanremo, quello che pur tra mille difetti e polemiche esisteva fino a qualche anno fa, nella gestione Amadeus è definitivamente defunto, lasciando spazio a qualcosa di completamente diverso che, però, vista la caducità dei social media (oggi la «formula Tik Tok» impera, come per qualche anno ha regnato quella di Facebook, ma domani?) non siamo così sicuri possa essere replicato ancora a lungo con l’efficacia che ha avuto negli ultimi anni. Perché, alla fine, ciò che determina il vero successo di un’iniziativa è la qualità di fondo. Che in questo Sanremo è quasi totalmente mancata. E a chi, di fronte a questa critica, replica dicendo che in fondo il festival va giudicato positivamente in quanto è piaciuto al grande pubblico, consiglio la frase che il grande (e vero) umorista Marcello Marchesi era solito ripetere a chi sosteneva che il consenso del pubblico è garanzia di qualità: «allora dovreste mangiare sterco. Miliardi di mosche, infatti, non possono tutte sbagliarsi…».