Carlo Silini

Dalla paura di morire all’angustia di vivere

La stragrande maggioranza di chi lavora nella prostituzione si vende perché è stata ingannata
Carlo Silini
07.05.2022 06:00

Basta uscire dal confine e le vedi. Per esempio, nei boschi attorno ad Appiano Gentile, a dieci minuti dalla frontiera di Bizzarone, appena oltre la ramina del Mendrisiotto. Non puoi ignorarle, del resto. Si buttano letteralmente sulla strada mentre passi in auto, di giorno o di notte. Sorridendo esibiscono la merce, cioè sé stesse, il loro bell’involucro di carne, fucina di fantasie e voglie per uomini a caccia di un tumultuoso corpo a corpo, ottenuto in cambio di qualche banconota lasciata nel corsetto o sopra un materasso, dentro un tendone di fortuna montato tra le frasche, i fuocherelli, le lattine vuote e i copertoni a dieci-quindici metri dal manto stradale. Ma certo, non c’è nulla di romantico, non si è lì per cercar margherite.

Tuttavia, per quanto inestetico e poco igienico, non è neppure lo squallore che dovrebbe farci insorgere contro questo commercio di amplessi. In fondo potrebbe anche essere che una si venda per strada (o in appartamento, o in albergo: non è che la solfa sia poi tanto diversa) per liberissima scelta. E allora, alla fine, che ci sarebbe di male? Un affare tra adulti consenzienti: contenti loro... Peccato che non è quasi mai così.

Lo conferma il servizio di Fabrizio Floris che proponiamo nel CorrierePiù di oggi, un viaggio che parte dall’Albania, ascoltando una suora che coordina gruppi di lavoro contro la tratta di esseri umani, drammaticamente in ripresa nel piccolo Paese europeo, e finisce dalle nostre parti: oltre ramina, in Valganna, in qualche parco sbilenco nella periferia di Milano o di Roma. Oppure giusto accanto a casa nostra, in stanze kitsch col letto leopardato, specchi al soffitto e confezioni di preservativi nei cestini di vimini dentro un palazzone del Luganese o del Bellinzonese.

È vero, esistono persone dedite alla prostituzione che scelgono scientemente quell’antica professione e magari arrivano persino ad amarla: alcune «escort» che ogni sera mettono via banconote di taglio grosso, ad esempio. Ma la stragrande maggioranza di loro si vende perché è stata ingannata, malmenata e costretta a farlo. Nel caso della tratta delle ragazze albanesi, i mercanti del sesso puntano alle effervescenti aspirazioni di cuore e di successo delle figlie di famiglie povere. Individuata la preda, inviano sotto casa sua un ragazzo onesto - a quanto si dice in giro - e per giunta belloccio, che promette fedeltà e paradisi di benessere all’estero. Invece è un «loverboy» (un seduttore che nel tempo si rivela violento, senza cuore e senza scrupoli) e le trascina a poco a poco nel vortice stordente di una vita di abusi, umiliazioni e taglieggiamenti, spacciati ipocritamente per «protezione». Una volta irretita, la preda non avrà più il coraggio di tornare indietro, anche perché in patria sarebbe trattata come una «donnaccia», non come una vittima.

Sono cose che si sanno, assai ben documentate, quasi ogni sera assistiamo dal divano a narrazioni più o meno dettagliate del fenomeno perfino nelle serie tv di grido e forse, anche per questo, le consideriamo una finzione dimenticando che sono una drammatica realtà. Perché la prostituzione non è una normale transazione economica che risponde alla logica lineare della domanda e dell’offerta, ma a quella balorda e spietata della domanda, di una storia di inganni e coercizione criminale, e solo alla fine dell’offerta di ragazze illuse, picchiate e consegnate alla legge losca e sciacalla dei marciapiedi e dei bordelli. Così scandalosamente sciacalla che ci stanno provando anche con le profughe ucraine in fuga dalla guerra. Le osservano quando arrivano nei centri di accoglienza in Germania o in altri Paesi e per loro c’è già pronto un «loverboy» che le porterà dalle bombe ai night club, dalla paura di morire all’angustia di sopravvivere. Altro che margherite.