L'editoriale

La fretta di Trump, i vantaggi di Putin

Mosca sa di essere in un vantaggio militare e strategico ormai definitivo e di avere davanti la possibilità addirittura di aumentare questo gap, anche grazie alla debolezza e alla mancanza di compattezza dell’Occidente
Paolo Galli
27.11.2025 06:00

Vladimir Putin è in una posizione di forza rispetto all’Occidente. E la sensazione è che molto dipenda - oltre che dalla situazione sul terreno - dalla presa che il presidente russo ha su Donald Trump. Dal vertice in Alaska in poi gli equilibri si sono spostati in maniera impressionante, ed è stato un susseguirsi di conferme di questo rapporto di influenza. Non è un caso se, ancora ieri, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov faceva riferimento proprio allo «spirito di Anchorage» come a una sorta di spartiacque, un riferimento che ha fissato le prospettive di questa guerra. E il Cremlino non vuole più tornare indietro, non è disposto a fare concessioni che vadano in senso contrario rispetto a quanto ottenuto lo scorso 15 agosto. D’altronde, perché dovrebbe farlo, subodorando la possibilità di ottenere, anche grazie a Trump, una vittoria totale? È questo che Putin vede all’orizzonte. E non c’era bisogno delle indiscrezioni dell’agenzia economica Bloomberg - sulle telefonate e sul rapporto tra l’inviato americano Steve Witkoff e il suo omologo russo Yuri Ushakov - per capire che il piano di pace proposto dagli Stati Uniti, quello in 28 punti, avesse radici russe. Non si spiegano altrimenti alcune di quelle proposte, a cominciare dal punto numero 20, che chiedeva di respingere e proibire ideologia e attività naziste.

E allora com’è possibile che, oggi, gli Stati Uniti favoriscano la propaganda russa? Come siamo arrivati a questo punto? Perché è qui che si gioca la comprensione di quanto sta avvenendo. E a chiederselo sono anche gli stessi repubblicani. Molti esponenti del GOP hanno sottolineato come il piano proposto da Trump all’Ucraina fosse sbilanciato in favore della Russia. E la vicinanza tra Witkoff e Ushakov ne sarebbe una conferma. Lo stesso Trump ha difeso l’operato del proprio inviato: «Deve vendere il piano all’Ucraina e alla Russia. È questo che fanno i negoziatori». Ma è una difesa che non convince fino in fondo. Il fatto è che tutto appare molto superficiale, sia le dichiarazioni degli ultimi giorni che il piano stesso. Un piano che si presta - nella sua assenza di dettagli - a future libere interpretazioni da parte soprattutto di Mosca. In particolare, mancano garanzie chiare di sicurezza in favore di Kiev. Che le reclama. Ma la NATO non vale, la NATO non si può, dice Mosca. E Washington è d’accordo, anche perché evidentemente - lo va dicendo sin da inizio anno - vede nella difesa del Vecchio Continente soltanto una spesa, senza tenere in considerazione il passato (le motivazioni storiche di simili investimenti) e i vantaggi futuri in termini di egemonia culturale e commerciale. Trump appare infastidito dalla questione ucraina. Lo si era capito sin dal primo incontro con Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca. Era il 28 febbraio. Poi i due si erano chiariti, i rapporti erano migliorati. Ma ancora negli scorsi giorni, il tycoon accusava l’ucraino di mancare di «gratitudine» e - reiterando un insulto già utilizzato nello Studio Ovale - di «carte in mano». E ha detto quindi no a un nuovo incontro diretto. Prima vuole che i negoziati prendano definitivamente forma.

Insomma, Trump insiste, vuole chiudere. Ma non considera come questa guerra duri ormai già da quasi quattro anni e sia radicata non soltanto nei territori interessati ma in tutte le dinamiche geopolitiche, coinvolgendo gli stessi Stati Uniti - che infatti vogliono liberarsene il più in fretta possibile - e anche l’Europa. Un’Europa spaventata da eventuali nuove aggressioni da parte della Russia, ma che pure si ritrova di colpo messa all’angolo dai suoi stessi storici alleati. Un’Europa tagliata fuori da ogni negoziato e che arriva, ogni volta, un attimo in ritardo sui fatti che contano. La stessa triade formata da Macron, Starmer e Merz sembra sempre rincorrere il punto, mai anticiparlo. E in quell’etichetta - «i volenterosi» - ci sono in fondo anche i limiti della propria coalizione, quelli che la buona volontà non riesce a colmare. Neppure i negoziati di Ginevra, a cui emissari europei hanno partecipato, hanno avuto il peso sperato. Hanno portato sì a un piano rivisto, il quale però, con ogni probabilità, verrà respinto al mittente dal Cremlino. Proprio per il motivo di cui sopra, per la ferma convinzione di Mosca di essere in un vantaggio militare e strategico ormai definitivo e di avere davanti la possibilità addirittura di aumentare questo gap, anche grazie alla debolezza e alla mancanza di compattezza dell’Occidente. E ciò al netto delle difficoltà che vive la sua economia. Putin ha dettato i punti del piano di pace, ha un riferimento limpido - Anchorage - da vendere all’opinione pubblica e da rinfacciare a Trump. Nulla sembra scalfirlo. L’unica possibilità passerebbe da nuove sanzioni e da un sostegno più limpido all’Ucraina. Ma anche questa non rappresenterebbe una soluzione rapida a questa guerra. 

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