L'editoriale

La simmetria degli obblighi tra Stato e Chiesa

La decisione del Gran Consiglio di introdurre nella Legge cantonale sulla Chiesa cattolica (e quella Evangelica riformata) l’obbligo di denuncia del vescovo nei confronti di un ecclesiastico è benvenuta e sacrosanta
Gianni Righinetti
18.11.2025 06:00

La decisione del Gran Consiglio di introdurre nella Legge cantonale sulla Chiesa cattolica (e quella Evangelica riformata) l’obbligo di denuncia del vescovo nei confronti di un ecclesiastico è benvenuta e sacrosanta. In presenza di un reato o sospetto di reato, contro l’integrità fisica, psichica o sessuale di un minorenne, il silenzio non sarà più accettabile, tollerabile o, persino, protetto da un vuoto legislativo. E viene così infranto quell’atteggiamento omertoso che nella Chiesa è stato la regola. Il mancato rispetto della legge diventerà pertanto illegale e sanzionabile non solo dal punto di vista morale, ma anche dal profilo del diritto materiale, secondo quanto previsto dal Codice penale. Esclamare «finalmente!» non è giustizialismo, ma è piena e compiuta giustizia. Un passo alla volta si procede, seppur colpevolmente e tardivamente, a riparare gli errori del passato, nella piena coscienza che nessuno potrà mai restituire alle vittime l’integrità, la purezza e la gioventù rubata da personaggi abbietti e manipolatori della mente e dell’intimità di ragazzini, o giovani adulti, che avevano riposto in quella figura guida piena fiducia. Una realtà che mette i brividi anche a distanza e da parte di chi, come noi, ne ha solo preso conoscenza. Ma non l’ha vissuta. Il punto di non ritorno è stato segnato nel 2023 con il rapporto sugli abusi nella Chiesa, il coperchio alzato sul pentolone maleodorante che covava da decenni, con l’istituzione ecclesiastica messa con le spalle al muro. Una realtà, quella degli abusi nella Chiesa, non distante continenti, non raggiungibile solo con ore di volo, ma presente finanche sulla porta della Diocesi di Lugano. Il caso con al centro don Rolando Leocondannato in sede penale per abusi con una sentenza all’acqua di rose, il comportamento dell’ex vescovo Valerio Lazzeri, leggero, incosciente e inaccettabile, risuonano come un’ingiustizia e una vergogna. Per la Chiesa e la nostra società tutta. La politica ha finalmente reagito, per una volta vorremmo pure dire con compostezza e senza quella baraonda che generano gli scandaletti (tali rispetto all’abuso) che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. La parola d’ordine, nei fatti, dovrà essere «obbligo di denuncia». E senza esitazione alcuna: nessuna copertura, nessun trasferimento silenzioso di ecclesiastici molestatori e malati, nessuna gestione «in casa» dei casi. Un plauso al piccolo e spesso provocatorio «Movimento per il socialismo», per aver lanciato l’idea e agli altri partiti che, una tantum, hanno sotterrato l’orgoglio politico secondo il quale «l’idea altrui non va mai sostenuta con troppa convinzione», unendo fattivamente le forze. Collaborare fino in fondo con il Ministero pubblico renderà la Chiesa più ancorata alla realtà e non sarà di certo questo passo di coscienza a sminuirne l’importanza e fare fuggire fedeli. Semmai è il contrario: l’assenza di legami con la realtà, la comprovata (ad anni di distanza) impunità, finanche la sbandierata superiorità morale di personaggi poi smascherati, sono il fondamento della distanza fra i fedeli e la Chiesa.

Il Parlamento ha decretato la fine di una zona franca in Ticino, nella speranza che questo faccia scuola. Vale la pena sottolineare lo spirito collaborativo, finanche l’atteggiamento realistico con il quale l’amministratore apostolico Alain de Raemy ha sostenuto, e non osteggiato, l’obbligo di denuncia. Non siamo per nulla certi che tutti avrebbero reagito con il suo spirito, di uomo di Chiesa trovatosi a confronto con le malefatte altrui del suo mondo nel nostro Ticino. Ora si volta un’altra pagina per scardinare quell’automatismo che vedeva lo Stato impotente mentre nelle segrete stanze, nonostante la presenza di simboli religiosi che avrebbero dovuto risvegliare la coscienza terrena degli uomini di Chiesa, si tendeva a gestire al proprio interno i sospetti di abuso: sondare, valutare, ascoltare, e solo in un secondo momento, se del caso, rivolgersi alla Magistratura. Ma, il più delle volte, insabbiare. L’evidenza ha dimostrato che questa prassi non è più tollerabile in uno Stato di diritto, l’elettroshock istituzionale del «caso don Leo» ha aperto gli occhi di chi era propenso chiuderli.

In Ticino, fino al voto parlamentare di ieri, la legge prevedeva un obbligo a senso unico: il procuratore ha il dovere di informare il vescovo se un ecclesiastico è toccato da un procedimento penale. Il contrario, per contro non era dato. La Chiesa poteva ricevere denunce o segnalazioni e, di fatto, decidere tempi e modi della trasmissione alla Magistratura. È qui che si è aperta quella che molti hanno definito una zona franca: un’area grigia in cui la responsabilità penale è mediata da valutazioni interne, da commissioni di esperti, da una cultura che per decenni ha privilegiato la gestione domestica dei conflitti, dei peccati e dei reati. Diamo il benvenuto alla simmetria degli obblighi tra Stato e Chiesa.

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