Per Pfister una gatta da pelare e una chance

Dalle indiscrezioni si è passati a una certezza. Il costo finale degli F-35 potrebbe risultare significativamente più caro rispetto a quello concordato con gli Stati Uniti. Il Consiglio federale, al momento della firma del contratto, aveva ribadito che la Svizzera era in una botte di ferro avendo negoziato un prezzo fisso, chiavi in mano, di 6 miliardi di franchi. Si scopre ora che il concetto di prezzo fisso degli americani non è lo stesso degli svizzeri. La possibile fattura aggiuntiva viene quantificata fra 750 milioni e 1,35 miliardi di dollari, compresi i supplementi di spesa per le infrastrutture in Svizzera. La questione non è chiusa, perché ora inizia un braccio di ferro politico e diplomatico con Washington per rimanere nei termini pattuiti. Ma è chiaro che il forte ed inaspettato rincaro rappresenta un altro brutto colpo per la fiducia nel Dipartimento della difesa e nell’esercito, già scossa nell’ultima fase dell’era Amherd per la vicenda RUAG e la gestione problematica di alcuni importanti progetti di armamento.
Bisognerebbe capire se c’è stata imperizia da parte svizzera nel negoziare un prezzo fisso o se il «malinteso» invocato dagli americani sia piuttosto una scappatoia per non aver saputo rispettare le condizioni vantaggiose fatte in fase di offerta. Berna ribadisce che fior di pareri legali hanno attestato la validità della sua interpretazione. Resta il fatto che nel 2022, prima della firma del contratto con il Governo americano (il quale a sua volta negozia i prezzi con il produttore Lockheed Martin), il Controllo federale delle finanze aveva detto che non c’era la garanzia legale di un prezzo fisso. L’allora capo del CDF Michel Huissoud ha dichiarato l’altro giorno al Tages-Anzeiger di non capire perché non si sia tenuto conto degli avvertimenti, nonostante ci fosse tempo a sufficienza per chiarire questi aspetti con gli USA. Intanto, a Berna il balletto politico è iniziato, fra chi torna a puntare l’indice accusatore contro Amherd e la sinistra che, contraria sin dall’inizio all’acquisto di nuovi aerei da combattimento, vorrebbe approfittarne per bloccare tutto, eventualmente facendo ripetere la votazione popolare: nella prima (settembre 2020), il credito d’impegno di 6 miliardi di franchi era stato accolto di strettissima misura, con il 50,1% di sì.
Il malcontento e lo sconcerto si possono capire, specie nell’ottica del contribuente, ma bisogna tenere i nervi saldi e non farsi guidare da considerazioni ideologiche che non portano da nessuna parte. Pur trovandosi in una situazione difficile e imbarazzante, il Governo fa bene a tirare dritto e a considerare l’abbandono del progetto F-35 solo come estrema ratio. Oggi più che mai la Svizzera ha bisogno di un esercito credibile e una flotta moderna è un elemento chiave della deterrenza. Abbandonare tutto di punto in bianco e ricominciare daccapo sarebbe ancora più costoso – entro fine 2025 sarà già stato speso un miliardo di franchi di acconti – e metterebbe a rischio la sicurezza aerea, perché non c’è il tempo necessario per trovare una rapida alternativa agli F/A-18, giunti ormai al termine del loro ciclo di vita. L’ideale –tutto il lotto al prezzo fisso pattuito – non sarà mai raggiunto, anche perché il contratto non prevede un arbitrato e la controparte ha un grosso potere. Una soluzione va innanzitutto trovata restando nel budget approvato alle urne, al limite rinunciando a qualche velivolo. Bisognerà comunque mettere in conto concessioni e soluzioni di ripiego. Il nuovo «ministro» della Difesa Martin Pfister, che in questa vicenda non porta alcuna responsabilità, si trova una gatta da pelare in più. Ma ha anche un’opportunità per dare una risposta efficace e pragmatica, per smarcarsi da chi l’ha preceduto e per ridare credibilità all’istituzione. «La trasparenza è la base per la fiducia» ha detto ieri a Berna. È già un buon inizio, anche se la strada è tutta in salita.