Sul voto italiano l’ombra del debito

C’è un filo di coerenza anche nell’incomprensibile, e per certi versi suicida, crisi politica italiana. Il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha sciolto ieri le Camere. Finisce una strana legislatura che nel 2018 vide l’affermazione di due distinti populismi. Cinque Stelle e Lega giurarono ai propri elettori che mai si sarebbero alleati. Nemici. Diedero, invece, vita al primo governo gialloverde, guidato da uno sconosciuto avvocato, Giuseppe Conte. L’atto finale è stato scritto, l’altro giorno al Senato, in una curiosa intesa di fatto, ancora una volta, tra loro. Assoluti (e dissoluti) protagonisti. Uniti nell’affondare il governo Draghi, uno dei migliori della Repubblica (che ha avuto nella propria storia ben trenta presidenti del Consiglio). Conte aveva aperto un’irresponsabile feritoia nella già fragile diga della maggioranza di unità nazionale non partecipando a un voto di fiducia. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha buttato giù tutto (non votando una risoluzione a favore del governo), togliendo così all’avvocato pugliese, capopopolo improvvisato, anche un miserabile dividendo politico. Nella convinzione (o illusione) di non perdere altro terreno nel confronto a destra con Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, ormai primo partito nei sondaggi. Inaspettatamente, anche Forza Italia - che pure aveva giurato con Silvio Berlusconi di votare la fiducia a Draghi - si è allineata, timorosa di perdere consensi. Due ministri, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, hanno abbandonato per protesta il partito. Altri seguiranno. L’anima liberale di Forza Italia appare fortemente ridimensionata. Chi ha rotto poi non ha avuto nemmeno il coraggio di votare direttamente una sfiducia.
L’alleanza di centrodestra si è improvvisamente ricostituita sulle spoglie del governo. Ma con un costo incalcolabile per l’intero Paese che rischia, per esempio, di perdere la prossima tranche di sussidi e prestiti europei e di tornare ad essere bersagliato dai mercati finanziari per l’alto debito pubblico, circa 2.700 miliardi di euro. Ieri la Banca centrale europea (BCE), oltre ad aumentare di mezzo punto i tassi, ha svelato come funzionerà l’eventuale paracadute per calmierare lo spread tra i rendimenti dei titoli pubblici dei Paesi membri. Francoforte interverrà secondo criteri discrezionali e unicamente davanti a dinamiche di mercato ingiustificate, cioè solo se queste produrranno danni per tutti. L’Italia non godrà di alcun aiuto per difficoltà proprie. A meno di richiederlo, con forti condizionalità, azionando un altro strumento, l’OMT (Outright monetary transaction), lanciato dallo stesso Draghi quando era al posto di Christine Lagarde. In poche ore, tra quello che è accaduto al Senato italiano e la riunione della BCE, è cambiato un mondo. Chissà se a Roma se ne sono accorti? L’era dell’indebitamento facile è finita. Ed è un vero peccato che proprio Draghi non abbia messo in guardia, per tempo, molti degli spensierati componenti della sua ormai defunta maggioranza. L’Italia non aveva mai votato in autunno. Anche perché vi è una legge di Bilancio da scrivere e consegnare all’Unione europea entro metà ottobre. Il centrodestra sostiene che non vi è nulla di male nel ridare la parola agli elettori, specie in una legislatura che ha avuto tre governi, di diverso e imprevedibile colore (gialloverde, giallorosso con la sinistra e di unità nazionale), con tre premier non scelti dal popolo. Sì, tutto giusto. Ma ha scelto di andarci nel modo peggiore, facendosi inutilmente del male. E con una guerra in corso. Putin ringrazia.