Detto tra noi

Tra pratica sportiva e agonismo

Dopo una certa età la competizione diventa un esercizio prettamente edonistico in cui indulge prevalentemente chi nel momento più «fertile» lo sport non lo ha praticato con regolarità o con un certo profitto
Mauro Rossi
12.08.2022 06:00

Negli scorsi giorni ho festeggiato un anniversario importante: le nozze d’oro con la corsa. Era infatti il 9 agosto 1972 quando, undicenne, mi iscrissi per la prima volta ad una competizione: una gara podistica di 8 km organizzata nel mio paese. Arrivai nono in classifica generale su circa 200 concorrenti, ma primo tra gli Under 14 e primo degli abitanti del villaggio. Al momento della premiazione, dovendo scegliere quale riconoscimento di categoria ritirare (i premi non erano infatti cumulabili) optai per il secondo: quella coppa in peltro era infatti più grande e ancora oggi troneggia nel mio salotto. Da quel giorno non ho più smesso di correre, dapprima a livello agonistico, anche con un certo profitto, da una trentina di anni esclusivamente in modo ludico ossia con estrema regolarità ma senza più effettuare alcuna competizione. E questo nonostante abbia ancora – mi dicono – qualche numero per ben figurare in eventuali graduatorie di categoria. Perché allora non cimentarsi in qualche gara, mi chiedono spesso in molti? Per un semplice motivo: poiché ritengo che l’agonismo sportivo sia da riservare al periodo fisicamente e psicologicamente più propenso, la gioventù. Dopo una certa età la competizione diventa un esercizio prettamente edonistico in cui indulge prevalentemente – fateci caso – chi nel momento più «fertile» lo sport non lo ha praticato con regolarità o con un certo profitto e che, una volta ritrovatosi «in quell’età in cui ci si sente finalmente giovani, ma è tardi» (Pablo Picasso dixit), prova a rimediare sottoponendosi a sforzi, fisici ma anche psicologici e finanziari, decisamente esagerati. Come coloro che, per partecipare a gare cicloamatoriali, investono cifre che neppure Pogacar spende per la sua attrezzatura; o chi, pur di ben figurare alla Stralugano di turno, si sottopone ad estenuanti allenamenti – tipo correre a mezzogiorno con una temperatura che sfiora i 40 gradi – e a regimi alimentari da trappista; o ancora chi si dedica completamente alla causa sportiva mettendo in secondo piano vita sociale e addirittura famigliare. Con risultati, va detto, nella maggior parte dei casi estremamente modesti sia in termini assoluti sia in proporzione agli sforzi effettuati e senza particolari benefici. Anzi, finendo spesso per danneggiare la propria condizione psico-fisica. Ecco perché onde evitare di ritrovarsi in questa perversa spirale – una volta che ci si ritrova in un vortice competitivo si fa infatti di tutto per cercare di vincere – preferisco rinunciare anche alla benché minima competizione, continuando a praticare il «mio» sport con serenità, senza particolari ansie di prestazione, in modo da far sì che «mens sana in corpore sano» non sia solo uno slogan e, soprattutto, senza disperatamente e anche un po’ pateticamente provare a rincorrere un passato che ormai, appunto, è passato.