Un maestro di classe ed eleganza

L’aspettavamo come qualcosa di ineluttabile, di inesorabile, di inevitabile. La notizia del ritiro di Roger Federer non è un fulmine a ciel sereno. Eppure speravamo non giungesse mai, come se il magico talento del basilese potesse renderlo eterno. No, nessuno è eterno, nemmeno il Maestro. Per chi lo ha seguito, ammirato e venerato per più di un ventennio, il suo addio è un lutto sportivo che sarà difficile da elaborare. Non gioca da più di un anno, Federer – la cui carriera si è così chiusa proprio nel suo giardino londinese di Wimbledon – ma in queste ore il senso di vuoto è quasi opprimente. Come sempre, in questi casi, il cuore fa a pugni con la ragione. Ha comunicato la sua decisione con la classe e l’elegenza che hanno contraddistinto il suo magico tennis. Nessuna conferenza stampa in mondovisione, niente manie di grandezza. La «folie des grandeurs» Federer l’ha sempre lasciata agli altri. Un messaggio su Instagram, una lettera d’addio: in tutta semplicità, come i suoi colpi, che faceva sembrare facili facili.
No, non erano facili. E chissà quanto è costato allo sportivo svizzero più grande di tutti i tempi dire basta. Io mi fermo qui. Quanto deve essere difficile rinunciare all’abbagliante luce dei riflettori, ad un mondo dorato costellato di trionfi. Quanto deve essere complicato mettere fine ad una delle carriere più brillanti nella storia di tutti gli sport. Ci ha provato fino all’ultimo, Federer, ma il fisiologico declino fisico di chi ha compiuto 41 anni e gli infortuni a ripetizione accusati nelle ultime tre stagioni hanno avuto la meglio.
Per fortuna, vien da dire. Sì, perché se il cuore piange, la ragione ci sussurra all’orecchio che i tempi del ritiro erano maturi. Anzi, chissà, forse Federer avrebbe anche potuto fermarsi prima. Non conta più nulla, adesso. Ma avevamo pianto con lui quando poco più di un anno fa aveva lasciato il campo centrale di Wimbledon sconfitto nei quarti di finale dal polacco Hurkacz in tre soli set. E con un pesantissimo 0-6 nell’ultima frazione. Federer si reggeva a malapena in piedi, avrebbe potuto gettare la spugna e ritirarsi. Non lo ha fatto.
Il timore di vederlo arrancare sui campi di mezzo mondo, ad un certo punto, è però diventato concreto. Una paura figlia, in buona parte, di quel 6-0 subito sul campo dove aveva festeggiato le sue imprese più epiche. Non avrebbe avuto nessun senso un Federer che cerca di rientrare tra i primi 50 o i primi 100 giocatori al mondo. La forza delle leggende è anche quella di saper dire basta al momento giusto. Prima di diventare la caricatura di sé stesso. Non è accaduto, per fortuna. Anche perché la grandezza di Federer va oltre il tennis. La sua filantropia, la delicatezza e la modestia con le quali si è investito in progetti umanitari, in particolare in Africa, hanno suscitato l’ammirazione del mondo intero. Ancora una volta, classe ed eleganza in campo come nella vita di tutti i giorni.
Oggi non è tempo di bilanci, né di fredde statistiche. È il giorno delle emozioni, quelle che Federer ci ha regalato per tantissimi anni. Abbiamo festeggiato con lui e abbiamo pianto insieme a lui: lacrime di gioia e, talvolta, di tristezza. In attesa di vederlo all’opera per l’ultima volta alla Laver Cup, a fine mese, prende ancora più vigore la certezza di aver ammirato l’uomo che ha portato il tennis in una nuova dimensione. Sì, fatta di classe ed eleganza, ma purtroppo non eterna.