Detto tra noi

Campioni e prototipi da laboratorio

Un vero campione è tale solo se mostra continuità di rendimento e non solo improvvisi picchi
Mauro Rossi
26.08.2022 06:00

Lo confesso: non sono uno sportivo da telecomando. Amo lo sport, lo pratico nei limiti imposti dall’anagrafe, ma non sono di quelli che lo seguono con assiduità dal divano, birra da una parte e popcorn dall’altra. Certo guardo qualche partita di calcio e di basket (l’hockey no, non riesco proprio a seguire il piccolissimo dischetto): per il resto davvero poco, nonostante il mio passato da giornalista sportivo e uno sconfinato amore nei confronti dell’atletica che però mi piace «live». L’eccezione a questa idiosincrasia nei confronti dello sport catodico sono state le ultime due settimane di competizioni polisportive continentali che tra atletica, nuoto, ciclismo, pallavolo mi hanno tenuto entusiasticamente incollato al televisore. Ho ammirato la prestanza e l’eleganza di molti atleti, mi sono esaltato durante i favolosi finali di Ricky Petrucciani e Mujinga Kambundji, ho apprezzato la simpatica schiettezza di Noè Ponti quando ha dichiarato «Negli ultimi metri di gara ho visto la Madonna...», ho invidiato la tenacia e la resistenza dei decatleti e ammirato il coraggio dei tuffatori dalle grande altezze... Due settimane insomma che mi hanno riconciliato con lo sport e all’interno delle quali ho intravisto solo un’ombra. E mi riferisco a Marcel Jacobs, colui che viene definito uno dei grandi fenomeni dell’atletica, il nuovo re assoluto della velocità che però continua a lasciarmi perplesso. Riavvolgiamo un attimo il nastro: fino a due anni era infatti un onesto velocista che faticava a imporsi a livello nazionale. Lo scorso anno alle Olimpiadi di Tokyo il «boom»: dieci giorni di fuoco in cui ha stupito il mondo vincendo tutto ciò che c’era da vincere con crono d’eccezione. Poi un’improvvisa sparizione per sei mesi giustificata in vari modi, una rapida e fugace apparizione quest’inverno a Belgrado ai mondiali indoor con il solito strabiliante risultato e ancora un lungo silenzio. Fino alla nuova esplosione due settimane fa, ancora più breve però rispetto a Tokyo tanto da lasciare in brache di tela la staffetta che contava su di lui per arrivare almeno alla finale. Poi l’ennesima sparizione sempre condita da giustificazioni varie. Un comportamento, converrete, strano e che alimenta dei sospetti. Per due motivi: perché un vero campione è tale solo se mostra continuità di rendimento e non solo improvvisi picchi. E perché in uno sport tutto sommato «povero» quale l’atletica in cui non sono le medaglie a farti guadagnare bensì il mostrarle nei ricchi meeting, rinunciarvi significa due cose: o sei milionario o hai qualcosa da nascondere, un po’ come nell’era d’oro del doping quando dopo performance d’eccezione si scompariva per un certo periodo in modo da «ripulirsi». Un sospetto dunque che non può non sorgere anche in questo caso, a meno che il nostro non decida di accettare un confronto continuo con i suoi avversari anche al di fuori di particolari «finestre»; vincendo, perdendo, ma sempre battendosi e mostrando di essere un atleta vero e non un mero prodotto da laboratorio. Nei confronti del quale ci può essere curiosità ma non quell’affetto e quella simpatia che si prova per un vero campione.