Detto tra noi

Eterni maestri e allievi

Come dice una celebre canzone, «ho sbagliato» e «mi scusi», sono due frasi così difficili da pronunciare
Mauro Rossi
11.06.2022 06:00

Uscendo da casa ho assistito a un piccolo - e fortunatamente senza troppi danni - incidente stradale: una signora, imboccando un senso unico al contrario ha cozzato contro l’auto di un tizio che stava parcheggiando. Alle giuste (e anche un po’ focose) rimostranze di costui la donna, invece di ammettere l’errore si è inalberata e, accampando le più assurde scuse, ha cercato contro ogni logica di giustificare il suo operato. Ne è nata una lite che solo l’intervento di una pattuglia della polizia transitata per caso da quelle parti, ha poi sedato. Devo ammettere di essere rimasto colpito dall’accaduto, specie dalla determinazione della donna nel sostenere la sua tesi, nel suo tentare di arrampicarsi sui vetri e negare il guaio commesso anche di fronte a una chiarissima evidenza. Una determinazione che, però, bisogna ammetterlo, non è un caso isolato: in quanti (anche chi vi scrive) spesso, di fronte alla contestazione di un palese errore commesso, hanno una reazione esagerata rifiutandosi di ammettere il torto? E perché invece che ammettere candidamente la propria colpa, si ha l’istinto di negare l’accaduto? Probabilmente la ragione va ricondotta all’infanzia di ciascuno di noi, a quando per la prima volta a scuola impariamo che, nella suddivisione dei ruoli, è quasi sempre l’alunno a sbagliare e l’insegnante a far notare l’errore e a correggere. Un’idea di contrapposizione di ruoli questa che poi, inconsciamente, ci si porta appresso tutta la vita e che dunque spinge chi sbaglia a non riconoscere il proprio errore perché non vuole sentirsi trattato come uno scolaretto, perché non accetta che la persona che glielo fa notare, assuma il ruolo di maestro. Quindi gli va contro, in maniera anche ostinata, illogica, ottusa pur di non apparire inferiore a lui. Sul fronte opposto, chi rimbrotta qualcuno per un errore commesso, in pochi casi lo fa con l’intento di migliorare il suo rendimento e a prestare maggiore attenzione: correggere un errore o far notare uno sbaglio, sovente, si trasforma in un momento di rivalsa al quale pochi riescono a rinunciare. Ed essendo appunto un’occasione di rivalsa, un modo per imporre in qualche modo una propria supremazia, raramente ci si comporta in modo pacato: in quel caso infatti l’agire non avrebbe i crismi della lezione che si pretende di impartire salendo, anche solo per un istante, in cattedra. I rimproveri finiscono quindi sovente per diventare arroganti perché, in fondo, si vuole che l’altro non li accetti e peggiori la propria posizione in modo da avere il pretesto per accanirsi ulteriormente su di lui e rinfacciargli non solo l’errore commesso ma anche l’ostinazione a volerlo difendere. Il risultato è quasi sempre un pericoloso corto circuito che sarebbe evitabile con un semplice «ho sbagliato, mi scusi» e con l’accettazione dell’ammissione di colpa della controparte. Ma come dice una celebre canzone, «ho sbagliato» e «mi scusi», sono due frasi così difficili da pronunciare...