Religione

«C'è un legame tra il vivere la missione ed esercitarsi nella comunione»

Il Vescovo di Lugano, Valerio Lazzeri sulla solitudine che stanno vivendo sempre più sacerdoti
Il Vescovo della diocesi di Lugano Monsignor Valerio Lazzeri. (CdT/Gabriele Putzu)
Andrea Stern
Andrea Stern
22.05.2022 10:00

L’ultimo è stato il parroco di Vacallo, protagonista di un’altra notte brava interrotta dalla polizia. Prima di lui c’è stato chi ha dilapidato patrimoni non suoi, chi ha abusato di una «pupilla», chi ha violentato una ragazza con problemi psichici, chi si è tolto la vita poco dopo aver lasciato la tonaca. Il malessere tra i sacerdoti è evidente, come d’altronde riconosce anche il vescovo di Lugano, monsignor Valerio Lazzeri.

Monsignore, a suo modo di vedere esiste un problema di solitudine dei sacerdoti?
«Credo che valga anzitutto la pena osservare che esiste una solitudine che appartiene in maniera strutturale al cuore umano. Nessuna persona raggiunge la maturità senza fare i conti con tale dimensione profonda, che niente e nessuno può raggiungere dall’esterno. È solo imparando ad abitare questa solitudine che si possono stabilire relazioni vere e significative con gli altri. Questo oggi è ancora più necessario per un prete, chiamato da celibe ad annunciare il Vangelo e a svolgere un servizio di comunione nell’ambito della comunità. Il punto è che spesso, per chi ha un ruolo istituzionale, non è semplice coltivare rapporti a questo livello. Una certa sfiducia verso ciò che viene proposto da fuori e un diffuso scoraggiamento di fronte ai grandi cambiamenti in atto nella Chiesa e nella società spingono molti a trascurare le occasioni di confronto e di condivisione. I presbiteri, come tutti, respirano l’aria di questo nostro tempo di confusione e di frammentazione. La loro vita, inoltre, è esposta agli occhi di tutti e questo non aiuta ad aprirsi senza timore di essere giudicati, a chiedere aiuto e a lasciarsi aiutare».

Una volta il campanile (e con esso il parroco) era al centro del paese. Oggi la vita religiosa tende ad avere un ruolo più marginale. Non crede che anche il parroco possa finire per sentirsi ai margini della comunità?
«Questo è certamente un aspetto della sfida da rilevare. In passato, il prestigio di un certo ruolo riconosciuto socialmente poteva sostenere nelle fatiche del ministero e dare, almeno esternamente, più solidità alle persone. Questo oggi non accade più automaticamente. Tuttavia, la marginalità non dovrebbe essere una dimensione impossibile da vivere per i cristiani e, di conseguenza, neanche per i cristiani preti. Gesù stesso e i suoi discepoli sono stati spesso dei marginali nella storia degli uomini. Ci vuole però la presa di coscienza dell’esigenza di un grande lavoro su sé stessi, il coraggio di ricominciare ogni mattina dal piccolo, dal pratico e dal possibile, non dando mai per scontate la propria vocazione e la propria missione. Gli aiuti per sostenere questo impegno non mancano. Vengono però offerti a persone adulte e libere, che possono decidere di avvalersene o no. Gli interventi disciplinari, a volte, sono inevitabili e possono essere utili in una certa misura, ma non si può pretendere che con essi si riesca a cambiare il cuore».

Considerato che l’abolizione dell’obbligo di celibato non entra almeno per il momento in discussione, quali soluzioni possono essere attuate per aiutare il sacerdote a sentirsi meno isolato?
«Certamente, uno degli aspetti fondamentali per poter vivere la scelta del celibato è quello della fraternità da vivere con chi condivide la stessa missione su un medesimo territorio. Nella mia ultima lettera pastorale, «I cristiani? Quelli della via!», ho cercato di mettere in luce il legame imprescindibile tra il vivere la missione e l’esercitarsi quotidianamente nella comunione fraterna, soprattutto con chi condivide lo stesso servizio alla comunità. Non sono pochi i presbiteri che già attualmente vivono, pregano e lavorano insieme. Da diversi anni si stanno facendo sforzi per sviluppare su tutto il territorio diocesano la dinamica delle reti-zone pastorali, che ha come primo obiettivo l’intensificarsi della corresponsabilità pastorale dei preti tra di loro e tra i preti e gli altri battezzati. Sono incoraggiate e sono attive in molti posti le mense sacerdotali, per offrire ai preti della stessa regione la possibilità di incontrarsi ogni giorno almeno per un pasto. Annualmente, poi, sono proposti incontri di formazione, di riflessione e preghiera, di scambio fraterno, non solo su questioni direttamente pastorali, ma anche sul proprio vissuto umano e spirituale. Certo, non è per nulla scontato che tutto questo riesca a raggiungere tutte le situazioni particolari di un presbiterio come il nostro, in parte anziano e in parte molto composito ed eterogeneo».

A chi può rivolgersi un prete che dovesse confrontarsi con difficoltà personali?
«Da diversi anni, abbiamo un accordo specifico con il servizio psicologico della diocesi di Milano a cui può ricorrere chiunque desideri essere accompagnato in caso di difficoltà. Vari operatori sono a disposizione e, di fatto, diversi nostri presbiteri vi fanno capo. Molti si rivolgono direttamente al vescovo, al vicario generale o al vicario episcopale. I vicari foranei, che conoscono meglio la realtà territoriale, svolgono pure un ruolo importante. Naturalmente, nelle situazioni di difficoltà personale l’ambito più favorevole rimane quello dell’amicizia, delle persone più vicine che possono aiutare il presbitero a trovare la fiducia necessaria ad aprirsi e a confidare il suo disagio. Per questo, più volte ho sottolineato la necessità che ognuno scelga personalmente una figura di riferimento, un padre spirituale o un confessore, con cui confrontarsi regolarmente ed evitare di rinchiudersi a poco a poco nell’autoreferenzialità».

In che modo la Curia agisce in modo proattivo per individuare e sostenere eventuali preti in difficoltà?
«Tutti i segnali di disagio che arrivano al vescovo o ai suoi collaboratori, in maniera diretta o indiretta, sono presi immediatamente sul serio. Certo, ogni situazione richiede un’attenzione specifica. È difficile stabilire una prassi univoca. La sfida è quella di far percepire a chi vive un disagio la possibilità di fidarsi dell’aiuto offerto. Molte volte l’intervento promosso a livello istituzionale può suscitare resistenze e sospetti. Bisogna poi distinguere le problematiche: un momento di depressione e di fatica non è lo stesso di un comportamento non adeguato a un presbitero o moralmente riprovevole. Una condotta scorretta non è identica a un reato penale, civile o canonico. Chiunque abbia responsabilità nella Chiesa rimane un essere umano, chiamato a esercitare un discernimento, che può essere fallibile e criticabile. Ho chiesto a tutti di contribuire alla ricerca di modalità più convenienti per rispondere a ogni grido d’aiuto, esplicito o implicito. Abbiamo sicuramente un ampio margine di miglioramento nell’essere pronti a rispondere alle situazioni sempre più complesse e in evoluzione, che sono sotto gli occhi di tutti».