Detto tra noi

Un salario senza lavoro?

Di fronte a questa prospettiva che risolverebbe molte di queste problematiche e che i progressi della tecnologia e dell’intelligenza artificiale rendono giorno dopo giorno sempre meno utopica, le perplessità continuano ad essere molte
Mauro Rossi
16.06.2023 06:00

«Se tu potessi ricevere uno stipendio mensile senza lavorare, cosa faresti?» È attorno a questa domanda che il regista italo-svedese Erik Grandini ha costruito il suo nuovo documentario After Work, distribuito in questi giorni. Un film da lui realizzato girando per il mondo e ponendo il quesito ad un’ampissima platea di lavoratori di varia estrazione sociale, culturale ed etnica. E cercando, attraverso le risposte ottenute, di tracciare una mappa del rapporto che abbiamo con le nostre occupazioni, di come, nei vari angoli del globo, lo stesso stia cambiando alla luce dei profondi mutamenti in corso nel mondo del lavoro, tra mestieri storici che stanno scomparendo, altri fino a pochi anni fa sconosciuti che si stanno imponendo e una tecnologia sempre più sofisticata che rischia di stravolgere secolari abitudini e ritmi di vita.

Il risultato ottenuto dall’indagine svolta da Grandini è per certi versi sorprendente: buona parte degli intervistati, di fronte alla prospettiva di non dover più lavorare per ottenere un salario, si è infatti mostrata sconcertata, quasi smarrita se non addirittura triste e reticente nell’accettarla. E non parliamo solo di persone provenienti da culture, tipo quelle asiatiche, in cui il lavoro è lo scopo principale dell’esistenza al quale sacrificare tutto, affetti e salute compresi. E neppure di quei Paesi nordici pervasi dall’etica calvinista e puritana dove il successo nel lavoro è un mezzo per raggiungere la purezza di spirito e, di conseguenza, il passaporto per il paradiso. Ma anche di quegli angoli del mondo in cui, in maniera forse fin troppo stereotipata, il detto «voglia di lavorare saltami addosso» si dice sia dominante, ma dove la prospettiva di un’esistenza trascorsa senza dover faticare è in larga parte dei casi considerata negativamente. E questo sebbene l’insofferenza nei confronti del lavoro, soprattutto negli ultimi anni, sia cresciuta, come dimostrano i sempre più numerosi casi di «burnout» (il vecchio esaurimento nervoso), il recente fenomeno delle dimissioni di massa, la grande richiesta di occupazioni part-time o gestite attraverso lo smart working, ma anche il preoccupante fenomeno dei Neet (acronimo nella frase inglese «Not in Education, Employment or Training») ossia dei giovani che né studiano né lavorano la cui percentuale, in alcuni Paesi, sfiora il 30%. Eppure, nonostante ciò, di fronte a questa prospettiva che risolverebbe molte di queste problematiche e che i progressi della tecnologia e dell’intelligenza artificiale rendono giorno dopo giorno sempre meno utopica, le perplessità continuano ad essere molte. La ragione? Probabilmente perché senza un lavoro bisognerebbe ridisegnare completamente le nostre esistenze e in molti casi colmare quei vuoti – culturali, umani, sociali, affettivi creatisi negli ultimi frastornati decenni – che oggi i nostri impegni lavorativi occultano, nascondono, mimetizzano ma che in assenza di questi impegni saremmo obbligati ad affrontare. Una prospettiva che, forse, provoca maggior angoscia di qualsiasi lavoro, anche il più logorante.