La storia

Lo chef sfuggito ai Talebani

Al posto dello storico Fiume Giallo a Lugano un ex rifugiato afghano ha aperto un ristorante dedicato a un Oriente diverso
Jalil Rabbani. © CdT/ Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
14.04.2024 13:30

In via Zurigo 6 a Lugano esiste da sempre un varco spazio-temporale. All’«altro mondo» si accede attraverso una porta orientaleggiante, sovrastata da una tettoia in stile Città Proibita: dà su un salotto pieno di specchi e decorazioni colorate. L’arredo dell’anticamera non è cambiato, anche se fino all’anno scorso collegava direttamente Lugano alla Cina, mentre ora chi entra viene trasportato in un luogo indefinito tra Iran e Afghanistan.

I luganesi sono a conoscenza - buona parte di essi - di questo prodigio e si lasciano volentieri sorprendere. Per quasi quarant’anni il posto è stato conosciuto con il nome di «Fiume Giallo», una delle più antiche trattorie cinesi in Ticino. La chiusura non è passata inosservata - ne abbiamo parlato sulla Domenica del 17 dicembre - e neanche il fatto che, dopo soli due mesi, la serranda si è magicamente rialzata.

Le Mille e una notte

Ad accogliere i clienti sulla soglia dell’Oriente ora è un uomo basso sulla trentina, dalla carnagione olivastra. Lo chef del ristorante «Mille e una notte» ha una storia terribile da raccontare, proprio come quelle con cui Sharazade intratteneva il sultano. Davanti a un piatto di «gormeh sabzi», uno stufato di manzo e spezie accompagnate da riso allo zenzero, ricorda il viaggio che lo ha portato a Lugano.

È nato ad Herat, in Afghanistan - non in Persia come si potrebbe pensare - 33 anni fa, e ha sempre sognato di fare il cuoco. Il destino non gli ha arriso: in una mattina del 2007 i Talebani hanno bussato alla porta della sua famiglia. Hanno portato via suo padre, e Jalil non ne ha più saputo niente per otto anni. «È stato orribile. Ci siamo ritrovati soli, pensavamo che non lo avremmo rivisto più». All’epoca il futuro ristoratore aveva appena 16 anni.

Con la madre e sei fratelli - di cui quattro più piccoli - Rabbani è partito per l’Europa. Un lungo viaggio a piedi, in auto e in barca di cui vorrebbe dimenticare tutto - «ricordare è doloroso» - tranne il cibo conosciuto strada facendo. In Iran il kebab è diverso che in Turchia, il khoresh - sugo con stufato di carne - sui monti Zagros è diverso da quello che cucinano sugli altipiani dell’Anatolia orientale.

«La cucina persiana è antica e ricca come quella indiana, ma certamente è meno conosciuta almeno in Europa» ha scoperto Jalil una volta arrivato a Lugano, come rifugiato politico. Oggi la famiglia si è riunita, il padre 72.enne è stato liberato dai Talebani ed è fuggito in Svizzera appena ha potuto. «Non posso dire che stia bene, porta profondi segni della prigionia nel corpo e nello spirito, ma almeno ora è qui con noi».

Il viaggio culinario

Sfogliare il menù del «Mille e una notte» è come immergersi nell’omonimo libro, il classico della letteratura orientale per eccellenza. L’influenza persiana prevale, ma le pietanze risentono delle culture attraversate da Rabbani nel suo viaggio, Ticino compreso (se non altro per le bevande alcoliche). Ci sono le prelibate samosa, di origine indiana, e ben dodici diversi tipi di «kebab» che ricordano la vulgata turca (il döner) solo nel nome e restituiscono in altrettante sfumature l’«orientalità» complessa del piatto (le cui origini sono propriamente iraniane). Del resto l’ibridismo per Rabbani, come per gli anonimi autori delle favole di Sherazade, non è una pecca ma un punto di forza. «Ho conosciuto l’autoritarismo e il fondamentalismo» racconta. «La libertà e la gioia di vivere sono un valore assoluto per me, come per la maggior parte delle persone che vivono sotto questi regimi». La frenesia cittadina, la gioventù vivace e i «divertimenti sfrenati» sono ad esempio i ricordi della città di Teheran, che lo chef rievoca davanti a un bicchiere di squisitissimo yogurt salato (ayran) coperto di petali di fiori. «Una cosa è l’immagine dell’Iran e dell’Afghanistan che arriva all’estero, paesi autoritari dove i diritti umani vengono calpestati, ed è senz’altro vera. Ma un’altra cosa è la gente che in quei paesi ci vive, e trova comunque modi per esprimere la propria vitalità».

Tracce del Fiume Giallo

Un modo è senz’altro la cucina, ricca e variegata e piena di contaminazioni.L’incontro di culture nell’ex Fiume Giallo si moltiplica anche nella messa in tavola, e in mille e uno dettagli sparsi per la sala del ristorante. Le tovaglie decorate con ghirigori multicolore fanno pendant con le scritte sui muri, in elegante alfabeto arabo (farsi), ma sui comodi divani - la parola è d’origine turca tra l’altro - fanno ancora capolino dei leoni cinesi scolpiti nel legno, retaggio della passata gestione. Il Fiume Giallo rivive anche negli intarsi scolpiti nel bancone del bar, all’ingresso, oltre che nella già citata tettoia «a pagoda» che ha reso riconoscibile il ristorante a generazioni di passanti - e che saggiamente i nuovi gestori hanno deciso di conservare.

Proprio l’aspetto orientale del locale, del resto, ha portato in via Zurigo lo chef afghano, per un gioco del destino. «Ero da tempo in cerca di un posto dove aprire un ristorante tutto mio» racconta Rabbani, che ha un diploma federale di cuoco e alle spalle altre esperienze nel settore in Ticino. «Un giorno passando davanti a questo posto ho deciso di fermarmi a dare un’occhiata. Ero incuriosito. Ho poi scoperto che era in vendita e non ci ho pensato due volte».

A metà febbraio ha aperto i battenti, per la gioia degli amanti della cucina etnica. Non sarà facile eguagliare l’eredità del Fiume Giallo, che nel Luganese era un’istituzione da quarant’anni, ma Rabbani ci vuole provare. In ogni caso, considerando il viaggio e le peripezie che ha affrontato da rifugiato in Ticino, essere arrivato fin qui per lui è già un sogno da mille e una notte.

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