«Sul clima non basta avere ragione, è tempo per messaggi di speranza»
La salsa di pomodoro sbattuta sul Van Gogh, le strade sbarrate da gruppi di manifestanti, più in generale un’immagine della lotta più radicalizzata di quanto non fosse in precedenza. Come sta cambiando allora il movimento per il clima? E queste nuove forme di comunicazione possono davvero aiutare a raggiungere l’obiettivo di una riduzione effettiva delle emissioni? Ne abbiamo parlato con il nostro collaboratore, esperto della questione climatica e di attivismo, Ferdinando Cotugno.
Nel
suo libro, Primavera ambientale (edito da Il Margine), scrive che «non
c’è mai stato un momento adatto quanto questo per diventare attivisti per il
clima». Perché? Perché proprio questo momento?
«Questo
decennio è decisivo per dare un colpo risolutivo alla riduzione di emissioni.
Ce lo dice la scienza, non la politica. Dobbiamo iniziare subito, dimezzando le
emissioni entro il 2030. È uno sforzo enorme, che coinvolge tutte le grandi
economie e che ha però bisogno di grande sostegno politico, del massimo
consenso. È il momento quindi che ognuno faccia la sua parte, ognuno a modo
proprio. Senza partecipazione politica, non potrà esserci cambiamento sociale.
L’impressione è che i movimenti per il clima siano alla fine di un ciclo,
partito nel 2018, con l’apparizione di Greta Thunberg, e in via di esaurimento
oggi. Questo ciclo ha vinto la battaglia dell’immaginario, ha fatto sì che la
nostra percezione della realtà cambiasse radicalmente. Il movimento,
radicalizzatosi, si è però anche un po’ svuotato. Nel 2019 era diventato
enorme, ma la pandemia poi ha svuotato le piazze, che non sono più tornate a
riempirsi come allora. La grande sfida del movimento è riuscire a uscire
dall’attuale bolla».
Se
consideriamo che, fino a cinque anni fa, l’umanità era ancora nella fase della
negazione, non possiamo dirci ottimisti della velocità con cui l’attenzione e
la sensibilità rispetto alla questione climatica si stanno propagando?
«Sì,
certo, si può essere ottimisti. Il cambiamento di mentalità c’è stato ed è
stato un successo. Il successo che la scienza aspettava da decenni. Ma ora
questo successo non è più sufficiente. Serve un messaggio diverso, sia da parte
dei policy maker, sia da parte dell’attivisimo e della scienza: un
messaggio più positivo, che spinga l’ambientalismo oltre questa immagine che
ha, di una lettura della società che ci vorrebbe portare a una vita di rinunce.
Un messaggio che indichi alle persone un futuro desiderabile. A mio avviso, le
parole centrali sono “desiderio” e “immaginazione”: l’immaginazione politica di
produrre un futuro desiderabile. Le persone non si attiveranno solo per paura.
La paura legata al cambiamento climatico non basta più, ha esaurito la sua
missione storica. Quando Greta Thunberg disse “Ho paura, e voi dovete averla
con me”, sviluppò un messaggio importante, ma non più attuale, oggi. Oggi sono
troppe le paure collettive, quella nucleare, quella sanitaria, quella della
povertà. E allora è normale non funzioni più quale strumento di attivazione e
di partecipazione. È qui che deve subentrare la speranza, il desiderio che
questa società decarbonizzata sia una società migliore, in cui si vive meglio,
in cui le disuguaglianze più strazianti siano risolte. Devono quindi entrare in
gioco anche le scienze sociali. Le scienze dure ci hanno detto ciò che dovevano
dirci, e quanto basta per l’azione della politica. Ora tocca alle scienze
sociali fornire nuovi modelli, nuove idee di mondi possibili e necessari».
Decenni
fa, il noto climatologo James Hansen giustificava le sue manifestazioni
dicendo: «Voi cosa fareste, se sapeste quello che io so?». È il climatologo che
va in scena. La scorsa settimana, a bloccare un’autostrada c’era anche Julia
Steinberger, professoressa dell’Università di Losanna, un’eccellenza svizzera
sul piano internazionale. E si è giustificata così: «L’ho fatto perché non vedo
altro modo per salvare l’umanità». La scienza gioca ancora la carta della
disperazione.
«Personalmente,
rispetto molto le proteste in nome del clima. Quelle proteste proseguiranno e
possono avere un loro senso. Ma quel messaggio va integrato con un altro
messaggio: serve un altro pezzo di società che ci parli di come migliorare la
società tutta. Non è quindi solo una questione di quali fonti di energia usiamo
e useremo. Il discorso dell’azione per il clima si è seduto sulle soluzioni tecniche,
sui pannelli, sulle pale eoliche, ma attorno a quei pannelli e quelle pale
eoliche, come cambierebbe la società? Ci sta, allora, che gli scienziati
protestino, ma serve anche la costruzione, il racconto di un mondo nuovo».
La
saggista americana Rebecca Solnit invitava, in questo senso, a «non rifiutare
la bellezza». Alcune azioni, a cominciare da quella, recente, delle due
militanti di Just Stop Oil, che a Londra hanno imbrattato I Girasoli di Van
Gogh, non sono in chiara antitesi rispetto a questo obiettivo?
«Ecco,
quella è un’azione problematica. Ne parlo con pudore, perché ho avvertito la
disperazione delle ragazze e riconosco legittimo il contesto, che è quello di
un Regno Unito che, nel giro di un anno, dall’ospitare la COP26 è passato a
politiche ecologiche devastanti, facendo passi indietro drammatici. Però mi
chiedo: con la vostra sofferenza, avete faticosamente conquistato la mia
attenzione per un minuto, avete fatto in modo che parlassimo della vostra
azione per una settimana; ma come avete utilizzato davvero quel minuto, e quale
messaggio mi avete raccontato? La sensazione è che non mi abbiate dato il
messaggio giusto. Legittimo il contesto, ma avrebbe meritato un messaggio più
produttivo. Non basta avere ragione: sappiamo che le due ragazze hanno ragione,
che la battaglia è giusta. Ma non così. Se vuoi arrivare a convincere, a
persuadere, chi ora non ti dà ragione, non puoi riuscirci con quel tipo di
azione. Hanno coinvolto l’arte nel conflitto, dicendoci in sostanza che l’arte
starebbe dall’altra parte della barricata rispetto al clima. Ma l’arte è parte
della vita stessa, quello tra vita e arte è un connubio indissolubile. In
realtà gli attivisti lottano per salvare Van Gogh, per salvare la bellezza. Poi
le ragazze sono state strumentalizzate, ma è comunque giusto fare un
ragionamento. Hanno stimolato una conversazione di qualità? Credo di no, anzi,
hanno generato una conversazione superficiale con parametri sbagliati. Infatti,
non parliamo di combustibili fossili ma di attivismo: è una discussione
metapolitica, non sui contenuti».
Ha
citato la COP26, una delusione. Ora ci avviciniamo alla COP27, prevista tra
poco meno di tre settimane al Cairo. Cosa si aspetta dalla COP e quali spunti
potrebbe offrire agli attivisti?
«Sarà
una COP estremamente problematica. La COP26 era stata circondata da un’attesa
che quest’anno non c’è, anche per la delusione generata da quella stessa
edizione. Da quel tipo di negoziato, di riflesso, ci si aspetta ormai sempre
meno, perché fatica a portare risultati consistenti. L’attivismo parteciperà
pochissimo a questa COP, e questo è l’altro problema. Sì, perché le conferenze
sul clima hanno come principio di funzionamento la pressione della società
civile. I grandi della Terra lavorano, in quei giorni, sotto la pressione di
manifestazioni e cortei, ma al Cairo tutto questo contesto non ci sarà,
innanzitutto per la mancanza di agibilità democratica dell’Egitto. La COP è
quindi destinata a svolgersi nel silenzio. E non favorisce il clamore neppure
il tema. Se a Glasgow si era parlato di energia, di come rinunciare ai
combustibili fossili, al Cairo il tema sarà altrettanto importante ma più
tecnico, visto che si parlerà di adattamento. Un tema fondamentale perché tocca
nel vivo la giustizia climatica - Sud del mondo contro Nord del mondo - e
perché verrà svolto in Africa, ma più ostico da comunicare».
Greta
Thunberg sembra sempre più sullo sfondo. A giorni uscirà un suo libro, The
Climate Book. Cosa si aspetta ancora da lei?
«Tenderà a farsi da parte, a lasciare spazio ad altre
voci. È vero, nei prossimi mesi le sarà difficile centellinare la propria
presenza, con un libro in uscita, ma il peso della sua mediaticità credo stia
diventando, per lei - così forte e al contempo così, per sua stessa ammissione,
vulnerabile -, troppo grande da gestire. Fridays for Future diventerà insomma
sempre più “Fridays” ma sempre meno “movimento di Greta”. All’interno
dell’attivisimo stanno nel frattempo emergendo altre figure, altre voci, altre
facce, anche di carattere più locale».